Verità, relativismo e politiche identitarie

Il bisogno di rafforzare l’identità di gruppo in un contesto sempre più difficile e complesso può alterare il concetto di realtà oggettiva fino a portare alla negazione dei fatti

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  • 22-06-2023
  • di Roger A. Sabbadini
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Esiste la verità assoluta? La maggior parte degli scienziati sa che esistono principi e leggi fisiche dimostrate che possono essere considerate assolute, comprese, paradossalmente, le teorie della relatività speciale e generale. I relativisti non fisici sostengono invece che non esistono assoluti; la verità è relativa ed è soggetta a più di un'opinione su questioni morali o etiche, ma di solito c'è poco dibattito sui principi fisici o naturali; a chi sostiene la teoria della razionalizzazione oggettiva, essi ribattono che dal momento che tutte le opinioni sono valide, non possono esserci assoluti - il che di per sé è un'affermazione assoluta. È internamente incoerente usare giustificazioni oggettive per negare l'esistenza della verità, un paradosso che è stato chiamato circolarità epistemica. I critici sostengono che i relativisti prendono l'abilità essenziale del pensiero critico e la estrapolano all'estremo. Una persona ragionevole può concluderne che un pensatore critico può accettare verità assolute, ma continuare a dubitare di altri concetti non verificati.

La visione meccanicistica del mondo, sostenuta dai fisici classici e da altri, prevede che i fatti, i principi e le leggi scientifiche non siano opinioni e che si sia arrivati a questa visione del mondo attraverso metodi empirici di acquisizione della conoscenza. Secondo questa visione, il concetto di realtà oggettiva esiste. Per esempio, la seconda legge della termodinamica (secondo cui l'entropia dell'universo continua ad aumentare) e la legge di gravitazione universale non sono in discussione; pertanto, l'accettazione di queste leggi non è un'opinione, ma una realtà oggettiva. La Terra è piatta o rotonda? Non ci sono due opinioni in merito, c'è un solo fatto, una sola realtà, senza compromessi, non c'è relativismo né scetticismo. Rebecca Solnit lo ha detto benissimo: «Se metà di noi credesse che la Terra è piatta, non arriveremo a un accordo dicendo che è una via di mezzo tra tonda e piatta. Quelli di noi che sanno che è rotonda non convinceranno gli altri con un compromesso».

I realisti si affidano alle istituzioni per validare i concetti sulla realtà oggettiva. Quando la fiducia nelle istituzioni viene erosa e delegittimata dai teorici del complotto o da chi aderisce a sistemi di credenze alternativi e non scientifici, allora perdiamo fiducia nelle istituzioni e nella “costruzione di conoscenza”. Si apre così la porta delle opportunità ai tiranni o a chi altri rivendichi il controllo in base all’autorità personale.

Finora abbiamo trattato essenzialmente verità scientifiche, ma esistono altre credenze non scientifiche che qualcuno potrebbe considerare come verità e che vanno esaminate. In generale, le credenze sono l’accettazione di qualcosa che viene giudicato vero. Spesso questi giudizi sono formulati senza prove e si basano esclusivamente sulla fiducia nella fonte dell'informazione. I conflitti nascono quando le persone differiscono nella fiducia in quelle fonti. Tuttavia, le persone ragionevoli possono trovare un terreno comune su determinate questioni se concordano su una serie di fatti. Le discussioni su temi come l'economia o l'immigrazione possono rientrare in un ambito in cui è possibile raggiungere dei compromessi. Per esempio, ci sono opinioni diverse su quali parametri vadano usati per misurare la salute dell'economia – l’indice Dow Jones, il tasso di disoccupazione, il deficit della bilancia commerciale, il debito pubblico, eccetera. Per quanto riguarda l'immigrazione, si possono raggiungere compromessi sulle quote e la concessione dell'asilo a chi cerca rifugio da regimi oppressivi. Si spera di poter convenire sui fatti e di poter esprimere credenze e opinioni senza mettere in discussione l’ identità o i principi morali di coloro con cui si discute.

La comunità scientifica ha assistito alla soppressione di idee scientifiche e alla politicizzazione della scienza già da Galileo, che subì due processi, nel 1616 e nel 1633, per le sue osservazioni scientifiche e i suoi scritti di astronomia. Le opere di Galileo supportavano la teoria copernicana secondo cui il Sole si trova al centro dell'universo, un concetto che all'epoca era conosciuto col nome di eliocentrismo. L’eliocentrismo contraddiceva il modello tradizionale del geocentrismo, promosso fin dall'epoca di Aristotele e Tolomeo, che sosteneva che la Terra (anziché il Sole) fosse ferma e si trovasse al centro dell'universo.

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La vicenda di Galileo è un esempio storico di politica identitaria - una forma di tribalismo in cui l'insieme di credenze di un gruppo, basate sull'identità condivisa, viene politicizzato. In quel caso, era l'identità religiosa condivisa degli inquisitori a far sì che considerassero la prospettiva eliocentrica come un attacco alla loro identità, alla loro autostima e alla loro coerenza cognitiva, elementi ai quali si riferivano come alla loro fede. Chi era all'interno del gruppo, in questo caso la Chiesa cattolica, vedeva chi ne era al di fuori – scienziati come Galileo – come nemici della Chiesa. L'autorità e l'egemonia della Chiesa le consentivano di attaccare gli scienziati e gli eretici che considerava bersagli legittimi difesa della propria posizione.

Le politiche identitarie non sono sempre state negative. In molti casi, l’appartenenza a un gruppo ha favorito la coesione attraverso esperienze condivise di razza, status sociale, religione, etnia, nazionalismo, orientamento sessuale o genere. Inoltre, la nazione non è sempre da equiparare allo “Stato”, un concetto che viene spiegato bene da Colin Woodard nel suo American Nations.

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L'identità collettiva ha spesso dato al gruppo la possibilità di ottenere cambiamenti positivi per mezzo dell'attivismo sociale. I movimenti per i diritti civili e per i diritti delle donne negli Stati Uniti sono buoni esempi di politicizzazione dell’identità di gruppo attraverso rivendicazioni comuni; in questi due movimenti, identità condivisa e attivismo hanno promosso successi politici come il diritto di voto. Un altro esempio classico di identità attraverso la condivisione di un dolore è quello del popolo ebraico. Gli ebrei hanno conservato una forte identità etnica grazie alle loro comuni sofferenze storiche, a cominciare dalla distruzione del primo Tempio di Gerusalemme (586 a.C.), attraverso secoli di pogrom e durante l’Olocausto. Per molti degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, la sofferenza è stata una condizione liberatoria che dava un senso alla vita, ma anche uno scopo alla loro identità di gruppo. Lo psichiatra e superstite di Auschwitz Viktor Frankl, sostenne che si possa dare significato alla vita compiendo un'azione, sperimentando un valore e soffrendo. Non è irrilevante il fatto che gli ebrei spesso si riferiscano al proprio gruppo etnico come “membri della Tribù” quale espressione della loro solidarietà in quanto popolo con una religione e una storia comune, inclusa quella della persecuzione. Nel novembre del 1947, le Nazioni Unite hanno riconosciuto la legittimità delle rivendicazioni ebraiche raccomandando la creazione di uno stato ebreo indipendente. Lo Stato di Israele fu creato poco dopo, nel 1948. La creazione di uno stato arabo separato, a cui ci si riferisce ora col nome di Stato di Palestina, fu anch'essa suggerita dalle Nazioni Unite, ma non si è ancora concretizzata. Per questo motivo il mondo arabo è unito nel vittimismo in maniera analoga.

La sofferenza condivisa di un popolo non porta sempre benefici. Può essere anche strumentalizzata, come quando i nazisti sfruttarono il vittimismo per costruire un'identità di gruppo per il popolo tedesco in risposta all'ingiusto trattamento del Trattato di Versailles. Il risultato è stata la guerra più distruttiva della storia e una pulizia etnica motivata da politiche identitarie.

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L'identità ha significati sia personali che sociali: rispettivamente, senso del Sé (ego) e affinità con il gruppo. Le due cose si intersecano quando percepiamo che la nostra identità personale e la nostra immagine del Sé sono riflesse o condivise da altri membri di un gruppo più ampio. Gli psicologi le chiamano “rappresentazioni condivise”.

L'identità di gruppo è cementata da un insieme comune di credenze, valori ed emozioni rinsaldati dall'appartenenza a una collettività. Secondo la teoria della rappresentazione sociale, le spiegazioni condivise della realtà sono rafforzate dalle interazioni sociali che coinvolgono il rinforzo delle rappresentazioni – credenze, idee e pratiche del gruppo. Noi esseri umani vogliamo districarci in un mondo complesso – raggiungere coerenza e stabilità quando ci troviamo di fronte a informazioni confuse o contrastanti. È il caso del conflitto esaminato in precedenza tra la visione dell'universo basata sulla fede nella Bibbia e quella copernicana basata sui fatti.

L'interazione sociale attraverso l'appartenenza o l'adesione ai valori condivisi di un gruppo più grande rafforza un insieme di rappresentazioni e può favorire una visione distorta di chi potrebbe nutrire convinzioni e visioni del mondo differenti. Spesso, più il messaggio è estremo e falso e più si diffonde. Più il gruppo è grande e influente, come una religione mondiale o una nazione, maggiore sarà l'adesione individuale a quella struttura di credenze. Le convinzioni sono favorite dalla forza dei numeri e dal pregiudizio di conferma rafforzato dai numeri. Questo risulta evidente nell'uso attuale dei gruppi sui social media, dove la disinformazione si diffonde rapidamente e su larga scala a prescindere dall’assenza di una base fattuale, a causa della necessità di aderire alle opinioni di un gruppo identitario più ampio. La condivisione sui social media è la versione virtuale del proselitismo politico.

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A livello psicologico, questa motivazione può spiegare in parte il motivo per cui alcuni gruppi religiosi evangelici si impegnano per crescere di numero attraverso il lavoro missionario. Ma concentrarsi sui numeri in quanto tali manca il bersaglio. In questo senso, Thomas Paine (1737-1809) ha messo in prospettiva la politica identitaria con la frase «La nostra forza non sta nel numero, ma nell'unione».

Anche i missionari, come i guerrieri, gli inquisitori, i crociati e i radicali jihadisti, potrebbero essere motivati dalla rettitudine morale che ritengono giustifichi le loro attività. L’elenco comprende diverse versioni di estremisti identitari. Per i missionari, la motivazione altruistica della diffusione del Vangelo e della salvezza delle anime promuove l'identità di gruppo attraverso un senso di rettitudine. Una nazione che va in guerra genera solidarietà nel popolo sostenendo la giustezza della propria causa e che Dio è dalla propria parte. Il nemico mortale non minaccia solo la sopravvivenza della nazione, ma, cosa ancora più importante, la sua identità. Parafrasando Paul Simon, le nazioni, come gli individui, possono essere accecate dalla luce di ciò che credono sia Dio, la verità e il diritto.

Nel corso della storia, il rinforzo sociale che promuove l'unità ha assunto la forma di rituali, giuramenti, alleanze, simboli collettivi, miti, leggende e anche del linguaggio stesso; oggi Internet ha creato il social networking come un veicolo per condividere rappresentazioni che promuovono i legami all’interno del gruppo. Una manifestazione attuale della rappresentazione sociale sono i pregiudizi di conferma e il modo in cui Internet e i social media li rafforzano, rafforzando inoltre teorie cospirazioniste e visioni del mondo ristrette che distillano e semplificano informazioni voluminose e complesse in una rappresentazione coerente (ma disinformata). Le credenze e le opinioni, anche su questioni basate sui fatti, sono influenzate dall'identità e sono indipendenti dall'intelligenza di una persona e dal suo livello di istruzione. L'identità di gruppo può far sì che la verità diventi relativa e possa essere negata se i fatti non vi si conformano. Usando le parole di Benjamin Franklin, «Un uomo convinto contro la sua volontà rimane ancora della sua opinione». La motivazione è forte fino a quel punto. Nel sostenere l'identità di gruppo, le rappresentazioni - il sistema di credenze collettive del gruppo - diventano non negoziabili. Più l'ambiente sociale fa paura, maggiore è il desiderio di accettare fatti alternativi e disinformazione per cementare l'identità di gruppo.

La scienza continua a essere sotto attacco, ma anche la letteratura è diventata un bersaglio, così come, drammaticamente, le persone. La censura totale della letteratura e il rogo di libri proseguono. La censura dei libri ha una lunga tradizione che storicamente ha coinciso con la stampa commerciale e si è estesa ai tempi moderni in altre forme. Oggi l'uso della disinformazione è una forma di censura de facto, dove i fatti o sono marginalizzati o sono diluiti dalle fake news diffuse attraverso Internet e i social media. Abbiamo anche imparato che la coesione sociale ha un prezzo – la giustificazione e la legittimazione di comportamenti deplorevoli che non hanno più lo scopo di far sopravvivere la tribù, ma che portano alla delegittimazione di chi si trova al di fuori del gruppo.

L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Skeptical Inquirer, vol. 46, n. 6, Nov/Dec. 2022. Traduzione di Filippo Pelucchi. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.

Bibliografia

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