Che cosa funziona contro i complottismi?

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© Andreus/iStock
I danni sociali prodotti dalle teorie della cospirazione sono sempre più evidenti e di conseguenza anche la necessità di contrastarle; ma quali sono le tecniche più efficaci per riuscirci? Affronta la questione una revisione sistematica (cioè una raccolta critica degli studi scientifici usciti sull’argomento) pubblicata lo scorso aprile su Plos ONE[1].

La revisione ha preso in esame 48 interventi “anti-complottismo” tratti da 25 studi scientifici e classificati in diverse categorie. L’inoculazione informativa consiste nel presentare ai soggetti dello studio gli argomenti contrari a una teoria del complotto prima che vengano a conoscenza della teoria stessa. Il priming prevede invece di indurre una determinata emozione o un particolare atteggiamento mentale prima dell’esposizione alla teoria del complotto, per esempio chiedendo di leggere un testo scritto con un carattere difficile da decifrare, cosa che richiede uno sforzo e stimola un atteggiamento analitico. Altre strategie comprendono la presa in giro del soggetto che mostra di credere a una teoria cospirazionista o l’appello al suo senso di empatia, nonché naturalmente il classico debunking, che si differenzia dall’inoculazione perché viene compiuto dopo che i soggetti sono stati esposti alla teoria del complotto.

La revisione ha trovato che questi ultimi approcci (presa in giro, appello all’empatia e debunking) sono i meno efficaci. La strategia del priming dà un risultato statisticamente significativo ma troppo piccolo per essere di aiuto pratico, oltre a non essere realizzabile nella vita reale. L’inoculazione informativa appare più persuasiva ma, oltre a non essere stata valutata nel lungo termine, funziona solo a certe condizioni: in uno studio, la sua efficacia crolla quando i partecipanti vengono avvisati che si cercherà di cambiare le loro convinzioni sulle teorie del complotto, un processo chiamato metainoculazione. In casi rari viene osservato un piccolo effetto controproducente, cioè l’intervento non diminuisce le credenze cospirative ma le fa leggermente aumentare. È interessante notare che quasi tutti gli interventi più efficaci hanno in comune tra loro il fatto di essere compiuti prima che i soggetti vengano esposti alle teorie del complotto.

Gli autori della revisione concludono che la strategia migliore è la prevenzione, in particolare stimolando una mentalità analitica e diffondendo gli strumenti del pensiero critico, cioè insegnando alle persone come valutare l’affidabilità delle informazioni e delle fonti, tutte conclusioni che appaiono molto in linea con il lavoro che cerca di fare il CICAP.

Ma la revisione ha diverse limitazioni che non permettono di considerarla come la parola definitiva sull’argomento. Ci sono più definizioni di pensiero cospirativo ed è difficile aggregare i dati in una maniera che permetta generalizzazioni. Gli interventi esaminati nella revisione nascono da una letteratura che non fa distinzione tra fenomeni diversi tra loro come le teorie del complotto vere e proprie, la disinformazione (false notizie diffuse di proposito con uno scopo definito) e la misinformazione (informazioni non accurate diffuse senza uno scopo malevolo). Alcuni studi presi in esame hanno l’obiettivo di ridurre la tendenza generale al cospirazionismo, mentre altri si concentrano sul diminuire l’adesione a specifiche teorie del complotto. La diversità culturale dei campioni analizzati è limitata (la maggior parte degli studi proviene dagli USA o dal Regno Unito).

Gli stessi autori dell’articolo affermano che siamo ancora all’inizio della ricerca di una strategia valida contro il cospirazionismo. Restiamo attenti agli sviluppi scientifici, ma nel frattempo continuiamo a lavorare sul pensiero critico.

Note

1) O’Mahony C., Brassil M., Murphy G., Linehan C., 2023. “The efficacy of interventions in reducing belief in conspiracy theories: A systematic review”, in PLoS ONE n. 18.
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