Tra i componenti del team di NewsGuard c’è l’italiana Virginia Padovese, che ricopre i ruoli di managing editor e vice president partnership per Europa, Australia e Nuova Zelanda. Le abbiamo rivolto alcune domande sul lavoro dell’organizzazione e sulle prospettive della lotta alla disinformazione.
Come avviene, da un punto di vista pratico, l’analisi di un sito?
Alcuni criteri sono molto facili da verificare. Penso alla presenza della pagina che fornisce informazioni sulla proprietà del sito, o sulla trasparenza riguardo agli articoli sponsorizzati. Per verificare altri fattori occorre leggere gli articoli presenti in ogni sezione, per esempio per verificare che non si presentino opinioni spacciandoli per articoli di cronaca.
Quest’ultimo è un problema molto diffuso in Italia.
Assolutamente sì, devo dire che nel mondo anglosassone la distinzione tra fatti e opinioni è più netta. Ci sono un sacco di siti in Italia che non rispettano questo criterio, inserendo opinioni nei propri articoli senza segnalarne la presenza.
Però ogni paese ha pratiche e sensibilità giornalistiche differenti.
Sì, a seconda del paese le realtà possono essere molto diverse. Noi abbiamo deciso di applicare gli stessi standard in ogni contesto anche per rendere il nostro lavoro comparabile. A ogni modo abbiamo un senior advisor per ogni paese proprio per questo motivo, così da segnalare se ci sono davvero delle peculiarità locali da tenere a mente. Questo non significa che modifichiamo la nostra analisi nella sostanza, ma che all’interno di quella determinata scheda possiamo andare a specificare che in un determinato luogo un aspetto preso in analisi venga visto magari in modo diverso. Ci sono dei paesi in cui alcuni dei nostri criteri è più difficile che vengano rispettati perché il giornalismo magari è leggermente diverso.
Qual è, secondo la vostra esperienza, lo stato del giornalismo italiano?
Lo stato del giornalismo italiano non è poi così differente da quello degli altri paesi che copriamo. Per quanto riguarda i grossi trend di disinformazione le realtà sono piuttosto sovrapponibili. Mi sento di sottolineare che le fake news sono davvero le stesse ovunque, vengono solo adattate ai diversi contesti locali per apparire credibili.
Avete mai riscontrato differenze sostanziali tra i vari paesi in cui operate?
Emergono, di tanto in tanto, delle peculiarità regionali. Per esempio, durante la pandemia da Covid-19 abbiamo analizzato un sacco di siti che pubblicavano disinformazione in ambito medico e sanitario sui vaccini. In questo contesto abbiamo individuato un trend sulla vendita di prodotti che erano spacciati come curativi per il Covid: questa realtà era molto presente negli Stati Uniti, mentre in Europa si è sviluppata poco. Nel complesso però mi sento di dire che il viaggio delle fake news è un processo abbastanza lineare: attraversano confini e barriere linguistiche e restano molto simili ovunque, pur adottando narrative adatte a insinuarsi nei contesti particolari.
Come viene accolto il lavoro di NewsGuard nel mondo del giornalismo?
Questo è uno degli aspetti di cui andiamo più orgogliosi. Quando un sito non rispetta qualche criterio e scriviamo loro per chiedere chiarimenti, molto spesso accade che i responsabili vadano a modificare qualcosa nelle loro pratiche per raggiungere gli standard di credibilità e trasparenza. Da quando NewsGuard esiste abbiamo analizzato più di 10.000 siti, e quelli che hanno apportato modifiche dopo le nostre segnalazioni sono 2200. Quindi effettivamente c’è un grande riscontro. Chiaramente questo non vale per i grossi siti che fanno regolarmente disinformazione, quelli che chiamiamo repeat offenders. Loro non rispondono o, se lo fanno, ci dicono che non apprezzano il nostro lavoro.
I paesi in cui siete presenti fanno tutti parte di quello che viene chiamato “occidente”. Avete in programma di aprirvi anche a paesi dell’est o del sud del mondo?
Sì. Abbiamo la volontà di estenderci anche in quel tipo di territori. Essendo una realtà basata su un lavoro giornalistico e di analisi, coprire ogni nuovo paese è un’operazione imponente: bisogna assumere giornalisti locali perfettamente bilingui, trovare persone qualificate e analizzare centinaia di siti, è un grosso sforzo. Un’operazione interessante per quello che riguarda i paesi dell’est è nata da una collaborazione con Reporters Without Borders, con cui abbiamo analizzato i siti d’informazione ucraini. L’idea era individuare quelli affidabili e fare in modo che potessero entrare nei circuiti pubblicitari, dicendo in sostanza ai brand “potete lavorare con loro”. Molte aziende, infatti, preferiscono non investire in siti che possono essere controversi e pubblicare disinformazione per non associarvi il loro nome.
Si può dire che fare buon giornalismo paga anche dal punto di vista economico?
Questo concetto è importantissimo ed è uno dei settori in cui stiamo lavorando di più. Forniamo i nostri dati alle agenzie pubblicitarie o ai brand per dir loro: se vuoi lavorare per demonetizzare la disinformazione e non associarti a quelle realtà, ai siti di propaganda, evita di investire in questi portali che ti indichiamo. In questo modo rendiamo la vita dei disinformatori più difficile.
Esistono diverse tipologie di notizie false. Come vi orientate?
Nei metadata dei nostri rapporti forniamo tutti questi distinguo, quindi per chi legge è facile capire se si parla di misinformazione, quindi di notizie non corrette, o di disinformazione, ovvero di fake news diffuse col preciso intento di ingannare il lettore. Esistono magari siti che pubblicano informazioni sbagliate senza saperlo, altri ritenendo che siano vere. La disinformazione, invece, viaggia su circuiti separati, magari su network di siti che hanno la stessa proprietà e dietro cui c’è un piano preciso.
Ovvero?
Anche qui ci sono realtà molto diverse, ma il lavoro di questi network è coordinato. Su queste strategie ci sono molte ricerche, pubblicate anche in Italia. Magari capita che un sito con pochi lettori pubblica una notizia, che viene poi ripresa da siti più grandi che la diffondono a un pubblico più vasto. Questi comportamenti di condivisione degli stessi contenuti sono identificabili e, quando ci si rende conto che la dinamica di base è sempre la stessa, si capisce che è un’operazione coordinata di un network di realtà che si conoscono e hanno una strategia di azione.
Cosa deve significare per chi naviga il bollino di affidabilità di NewsGuard? Fin dove si può spingere la fiducia?
Questo è un concetto che sottolineiamo spesso. Il fatto che valutiamo un sito come affidabile non vuol dire che lo sia anche ogni contenuto che pubblica, è una valutazione generica su quel portale. Non tutti i siti che consideriamo inaffidabili pubblicano solo fake news e non tutti i siti che promuoviamo pubblicano sempre contenuti perfetti. Il nostro approccio, e credo che sia la nostra forza, è quello della trasparenza: rendiamo chiaro al lettore il nostro processo di analisi. Intendiamo la nostra estensione per il browser come uno strumento che fornisce un contesto al lettore, spesso disorientato dalla quantità di informazioni presenti sul web. Se ottengo decine di risultati da una ricerca, posso aprire la scheda di affidabilità di NewsGuard e capire chi c’è dietro ogni fonte, chi mi sta offrendo quell’informazione e chi la finanzia. Con questi strumenti si può navigare con maggiore consapevolezza. Magari per qualche motivo decidiamo lo stesso di aprire siti inaffidabili, ma lo facciamo con cognizione di causa.
Non c’è il rischio che chi naviga, vedendo un bollino, abbassi la guardia?
Il nostro obiettivo è esattamente il contrario, suscitare curiosità. Indurre il lettore a pensare: “Questo sito ha un buon livello di affidabilità, perché? Fammi capire”. Allo stesso modo, vorremmo ci fosse curiosità nel leggere quello che pubblicano anche i siti inaffidabili. Facendo questo esercizio, nel tempo, tutti potrebbero essere in grado di applicare i nostri criteri anche in prima persona. Quando andiamo nelle scuole invitiamo i ragazzi a non scaricare subito la nostra estensione del browser, ma a fare prima esercizi di navigazione in prima persona.
Già, perché una parte del vostro lavoro è diretto alla formazione.
C’è tutta una parte del nostro lavoro che si svolge con le scuole e le biblioteche pubbliche. Grazie a una partnership con Microsoft abbiamo la possibilità di fornire la nostra estensione del browser gratuitamente a tutte le biblioteche pubbliche che sono interessate a farlo. In genere facciamo anche dei corsi ai bibliotecari, in modo che poi possano essere loro stessi a tenere delle lezioni ai fruitori delle strutture e sensibilizzare sull’importanza di una navigazione più consapevole. A oggi le biblioteche che impiegano NewsGuard sono circa 800. Per quanto riguarda le scuole, invece, sviluppiamo attività partecipando alle lezioni nei licei durante le ore di educazione civica o all’università con i docenti che vogliono parlare ai propri studenti di disinformazione digitale.
Che ruolo hanno avuto i social network nella diffusione della disinformazione?
I social network sono stati un enorme amplificatore di tutto, di quello che è buono e quello che non lo è. E con la disinformazione questa amplificazione può essere un fattore pesante. Tante volte siamo noi stessi misinformatori senza rendercene conto, quando condividiamo un articolo con informazioni false che riteniamo corrette.
Negli ultimi anni i grandi siti d’informazione hanno capito l’importanza di dotarsi di contenuti a pagamento, aumentando la qualità della loro produzione. Questo aiuterà a contrastare la disinformazione?
Assolutamente sì. È come se stessimo assistendo sempre di più a una separazione tra quello che è il giornalismo di qualità, che per essere tale ha bisogno di sostenere determinate spese, e quello realizzato con superficialità. Va da sé che il lettore va aiutato nella comprensione di questi meccanismi, rendendo più evidente questa spaccatura. Se nessuno ci insegna a discernere i contenuti di qualità, restiamo disorientati lo stesso.
L’intelligenza artificiale, invece, ha un ruolo nella diffusione di notizie false?
Ha impattato e sta impattando in un modo molto forte. Prima si riscontrava la proliferazione di siti dal contenuto leggero e superficiale che miravano ad attirare click per monetizzare. Ora siamo giunti a un nuovo stadio: siti interamente prodotti da intelligenza artificiale, che pubblicano migliaia di articoli al giorno scritti da un bot, senza nemmeno revisione umana.
E sono in grado di produrre sistematicamente fake news?
Noi abbiamo messo alla prova diversi chatbot per capire se siano propensi a produrre contenuti di disinformazione e purtroppo la risposta è sì. Li abbiamo tentati chiedendo di produrre disinformazione e tra il 76 e il 100% dei casi il bot produce quanto richiesto. Per esempio, abbiamo chiesto di scrivere un articolo per sostenere che la sparatoria avvenuta nel 2012 nella scuola di Sandy Hook, in Connecticut, fosse una messinscena con attori. I bot hanno prodotto degli articoli che sostenevano questa tesi.
Questi strumenti, se orientati in un certo modo, possono fare molti danni.
I rischi sono stati illustrati bene in un articolo pubblicato il mese scorso dal Wall Street Journal. Un giornalista ha provato a creare un sito completamente automatizzato che producesse contenuti a sua richiesta con un orientamento politico a sua richiesta. Ha speso in totale 105 dollari e in 48 ore uno sviluppatore gli ha fornito un portale che si spacciava per una testata locale dell’Ohio, in supporto di uno dei due candidati alla corsa al Senato. Il sito, come richiesto, produceva un articolo ogni 12 minuti, andando a riscrivere tramite intelligenza artificiale articoli pubblicati in altri siti locali, aggiungendo informazioni assolutamente false a favore del candidato prescelto. Capiamo la portata di questa operazione: se con un centinaio di dollari possiamo creare in due giorni un sito che al lettore medio appare come un portale che pubblica news su una determinata area, con informazioni false inserite in articoli di cronaca che parlano di fatti reali, diventa veramente complicato orientarsi. Quindi l’intelligenza artificiale, come tutto, è uno strumento, assolutamente potente, che nelle mani di un malintenzionato può diventare molto pericoloso.
Questa commistione tra fatti reali e inventati è una delle maggiori insidie per gli utenti.
Sì, un aspetto che rende sempre le fake news difficili da riconoscere è il fatto che molto spesso in esse c'è qualcosa di vero. Ovvero si prende un’informazione e la si manipola, si aggiungono dettagli ma si conservano degli aspetti veritieri. Faccio sempre un esempio delle fake news che sono circolate durante la pandemia relativamente alle segnalazioni di eventi avversi legati ai vaccini. Chi voleva disinformare non faceva altro che riprendere il numero di segnalazioni di “sospetti eventi avversi” presentandoli come “eventi avversi ai vaccini”. Se un lettore superficiale legge quel numero e poi lo ritrova uguale nei documenti ufficiali, senza rendersi conto della leggera ma sostanziale modifica, darà credito alla notizia. A questo bisogna aggiungere che la notizia falsa è più accattivante di quella vera, perché fornisce risposte facili. Per questo le fake news viaggiano molto rapidamente nei momenti di crisi, durante guerre o pandemie: perché in quei momenti le persone hanno bisogno di risposte chiare, che le rassicurino.
Una domanda finale: è davvero possibile vincere la battaglia contro la disinformazione?
Bisogna agire su tanti fronti: demonetizzare chi disinforma, educare le persone, offrire informazioni sull’attendibilità delle fonti e sulle regolamentazioni. Il lavoro di NewsGuard è un passo, un approccio. Noi cerchiamo di fare la nostra parte e, personalmente, sono ottimista. Il problema è complesso e non facilmente risolvibile, ma io credo nell’intelligenza umana.
Come avviene, da un punto di vista pratico, l’analisi di un sito?
Alcuni criteri sono molto facili da verificare. Penso alla presenza della pagina che fornisce informazioni sulla proprietà del sito, o sulla trasparenza riguardo agli articoli sponsorizzati. Per verificare altri fattori occorre leggere gli articoli presenti in ogni sezione, per esempio per verificare che non si presentino opinioni spacciandoli per articoli di cronaca.
Quest’ultimo è un problema molto diffuso in Italia.
Assolutamente sì, devo dire che nel mondo anglosassone la distinzione tra fatti e opinioni è più netta. Ci sono un sacco di siti in Italia che non rispettano questo criterio, inserendo opinioni nei propri articoli senza segnalarne la presenza.
Però ogni paese ha pratiche e sensibilità giornalistiche differenti.
Sì, a seconda del paese le realtà possono essere molto diverse. Noi abbiamo deciso di applicare gli stessi standard in ogni contesto anche per rendere il nostro lavoro comparabile. A ogni modo abbiamo un senior advisor per ogni paese proprio per questo motivo, così da segnalare se ci sono davvero delle peculiarità locali da tenere a mente. Questo non significa che modifichiamo la nostra analisi nella sostanza, ma che all’interno di quella determinata scheda possiamo andare a specificare che in un determinato luogo un aspetto preso in analisi venga visto magari in modo diverso. Ci sono dei paesi in cui alcuni dei nostri criteri è più difficile che vengano rispettati perché il giornalismo magari è leggermente diverso.
Qual è, secondo la vostra esperienza, lo stato del giornalismo italiano?
Lo stato del giornalismo italiano non è poi così differente da quello degli altri paesi che copriamo. Per quanto riguarda i grossi trend di disinformazione le realtà sono piuttosto sovrapponibili. Mi sento di sottolineare che le fake news sono davvero le stesse ovunque, vengono solo adattate ai diversi contesti locali per apparire credibili.
Avete mai riscontrato differenze sostanziali tra i vari paesi in cui operate?
Emergono, di tanto in tanto, delle peculiarità regionali. Per esempio, durante la pandemia da Covid-19 abbiamo analizzato un sacco di siti che pubblicavano disinformazione in ambito medico e sanitario sui vaccini. In questo contesto abbiamo individuato un trend sulla vendita di prodotti che erano spacciati come curativi per il Covid: questa realtà era molto presente negli Stati Uniti, mentre in Europa si è sviluppata poco. Nel complesso però mi sento di dire che il viaggio delle fake news è un processo abbastanza lineare: attraversano confini e barriere linguistiche e restano molto simili ovunque, pur adottando narrative adatte a insinuarsi nei contesti particolari.
Come viene accolto il lavoro di NewsGuard nel mondo del giornalismo?
Questo è uno degli aspetti di cui andiamo più orgogliosi. Quando un sito non rispetta qualche criterio e scriviamo loro per chiedere chiarimenti, molto spesso accade che i responsabili vadano a modificare qualcosa nelle loro pratiche per raggiungere gli standard di credibilità e trasparenza. Da quando NewsGuard esiste abbiamo analizzato più di 10.000 siti, e quelli che hanno apportato modifiche dopo le nostre segnalazioni sono 2200. Quindi effettivamente c’è un grande riscontro. Chiaramente questo non vale per i grossi siti che fanno regolarmente disinformazione, quelli che chiamiamo repeat offenders. Loro non rispondono o, se lo fanno, ci dicono che non apprezzano il nostro lavoro.
I paesi in cui siete presenti fanno tutti parte di quello che viene chiamato “occidente”. Avete in programma di aprirvi anche a paesi dell’est o del sud del mondo?
Sì. Abbiamo la volontà di estenderci anche in quel tipo di territori. Essendo una realtà basata su un lavoro giornalistico e di analisi, coprire ogni nuovo paese è un’operazione imponente: bisogna assumere giornalisti locali perfettamente bilingui, trovare persone qualificate e analizzare centinaia di siti, è un grosso sforzo. Un’operazione interessante per quello che riguarda i paesi dell’est è nata da una collaborazione con Reporters Without Borders, con cui abbiamo analizzato i siti d’informazione ucraini. L’idea era individuare quelli affidabili e fare in modo che potessero entrare nei circuiti pubblicitari, dicendo in sostanza ai brand “potete lavorare con loro”. Molte aziende, infatti, preferiscono non investire in siti che possono essere controversi e pubblicare disinformazione per non associarvi il loro nome.
Si può dire che fare buon giornalismo paga anche dal punto di vista economico?
Questo concetto è importantissimo ed è uno dei settori in cui stiamo lavorando di più. Forniamo i nostri dati alle agenzie pubblicitarie o ai brand per dir loro: se vuoi lavorare per demonetizzare la disinformazione e non associarti a quelle realtà, ai siti di propaganda, evita di investire in questi portali che ti indichiamo. In questo modo rendiamo la vita dei disinformatori più difficile.
Esistono diverse tipologie di notizie false. Come vi orientate?
Nei metadata dei nostri rapporti forniamo tutti questi distinguo, quindi per chi legge è facile capire se si parla di misinformazione, quindi di notizie non corrette, o di disinformazione, ovvero di fake news diffuse col preciso intento di ingannare il lettore. Esistono magari siti che pubblicano informazioni sbagliate senza saperlo, altri ritenendo che siano vere. La disinformazione, invece, viaggia su circuiti separati, magari su network di siti che hanno la stessa proprietà e dietro cui c’è un piano preciso.
Ovvero?
Anche qui ci sono realtà molto diverse, ma il lavoro di questi network è coordinato. Su queste strategie ci sono molte ricerche, pubblicate anche in Italia. Magari capita che un sito con pochi lettori pubblica una notizia, che viene poi ripresa da siti più grandi che la diffondono a un pubblico più vasto. Questi comportamenti di condivisione degli stessi contenuti sono identificabili e, quando ci si rende conto che la dinamica di base è sempre la stessa, si capisce che è un’operazione coordinata di un network di realtà che si conoscono e hanno una strategia di azione.
Cosa deve significare per chi naviga il bollino di affidabilità di NewsGuard? Fin dove si può spingere la fiducia?
Questo è un concetto che sottolineiamo spesso. Il fatto che valutiamo un sito come affidabile non vuol dire che lo sia anche ogni contenuto che pubblica, è una valutazione generica su quel portale. Non tutti i siti che consideriamo inaffidabili pubblicano solo fake news e non tutti i siti che promuoviamo pubblicano sempre contenuti perfetti. Il nostro approccio, e credo che sia la nostra forza, è quello della trasparenza: rendiamo chiaro al lettore il nostro processo di analisi. Intendiamo la nostra estensione per il browser come uno strumento che fornisce un contesto al lettore, spesso disorientato dalla quantità di informazioni presenti sul web. Se ottengo decine di risultati da una ricerca, posso aprire la scheda di affidabilità di NewsGuard e capire chi c’è dietro ogni fonte, chi mi sta offrendo quell’informazione e chi la finanzia. Con questi strumenti si può navigare con maggiore consapevolezza. Magari per qualche motivo decidiamo lo stesso di aprire siti inaffidabili, ma lo facciamo con cognizione di causa.
Non c’è il rischio che chi naviga, vedendo un bollino, abbassi la guardia?
Il nostro obiettivo è esattamente il contrario, suscitare curiosità. Indurre il lettore a pensare: “Questo sito ha un buon livello di affidabilità, perché? Fammi capire”. Allo stesso modo, vorremmo ci fosse curiosità nel leggere quello che pubblicano anche i siti inaffidabili. Facendo questo esercizio, nel tempo, tutti potrebbero essere in grado di applicare i nostri criteri anche in prima persona. Quando andiamo nelle scuole invitiamo i ragazzi a non scaricare subito la nostra estensione del browser, ma a fare prima esercizi di navigazione in prima persona.
Già, perché una parte del vostro lavoro è diretto alla formazione.
C’è tutta una parte del nostro lavoro che si svolge con le scuole e le biblioteche pubbliche. Grazie a una partnership con Microsoft abbiamo la possibilità di fornire la nostra estensione del browser gratuitamente a tutte le biblioteche pubbliche che sono interessate a farlo. In genere facciamo anche dei corsi ai bibliotecari, in modo che poi possano essere loro stessi a tenere delle lezioni ai fruitori delle strutture e sensibilizzare sull’importanza di una navigazione più consapevole. A oggi le biblioteche che impiegano NewsGuard sono circa 800. Per quanto riguarda le scuole, invece, sviluppiamo attività partecipando alle lezioni nei licei durante le ore di educazione civica o all’università con i docenti che vogliono parlare ai propri studenti di disinformazione digitale.
Che ruolo hanno avuto i social network nella diffusione della disinformazione?
I social network sono stati un enorme amplificatore di tutto, di quello che è buono e quello che non lo è. E con la disinformazione questa amplificazione può essere un fattore pesante. Tante volte siamo noi stessi misinformatori senza rendercene conto, quando condividiamo un articolo con informazioni false che riteniamo corrette.
Negli ultimi anni i grandi siti d’informazione hanno capito l’importanza di dotarsi di contenuti a pagamento, aumentando la qualità della loro produzione. Questo aiuterà a contrastare la disinformazione?
Assolutamente sì. È come se stessimo assistendo sempre di più a una separazione tra quello che è il giornalismo di qualità, che per essere tale ha bisogno di sostenere determinate spese, e quello realizzato con superficialità. Va da sé che il lettore va aiutato nella comprensione di questi meccanismi, rendendo più evidente questa spaccatura. Se nessuno ci insegna a discernere i contenuti di qualità, restiamo disorientati lo stesso.
L’intelligenza artificiale, invece, ha un ruolo nella diffusione di notizie false?
Ha impattato e sta impattando in un modo molto forte. Prima si riscontrava la proliferazione di siti dal contenuto leggero e superficiale che miravano ad attirare click per monetizzare. Ora siamo giunti a un nuovo stadio: siti interamente prodotti da intelligenza artificiale, che pubblicano migliaia di articoli al giorno scritti da un bot, senza nemmeno revisione umana.
E sono in grado di produrre sistematicamente fake news?
Noi abbiamo messo alla prova diversi chatbot per capire se siano propensi a produrre contenuti di disinformazione e purtroppo la risposta è sì. Li abbiamo tentati chiedendo di produrre disinformazione e tra il 76 e il 100% dei casi il bot produce quanto richiesto. Per esempio, abbiamo chiesto di scrivere un articolo per sostenere che la sparatoria avvenuta nel 2012 nella scuola di Sandy Hook, in Connecticut, fosse una messinscena con attori. I bot hanno prodotto degli articoli che sostenevano questa tesi.
Questi strumenti, se orientati in un certo modo, possono fare molti danni.
I rischi sono stati illustrati bene in un articolo pubblicato il mese scorso dal Wall Street Journal. Un giornalista ha provato a creare un sito completamente automatizzato che producesse contenuti a sua richiesta con un orientamento politico a sua richiesta. Ha speso in totale 105 dollari e in 48 ore uno sviluppatore gli ha fornito un portale che si spacciava per una testata locale dell’Ohio, in supporto di uno dei due candidati alla corsa al Senato. Il sito, come richiesto, produceva un articolo ogni 12 minuti, andando a riscrivere tramite intelligenza artificiale articoli pubblicati in altri siti locali, aggiungendo informazioni assolutamente false a favore del candidato prescelto. Capiamo la portata di questa operazione: se con un centinaio di dollari possiamo creare in due giorni un sito che al lettore medio appare come un portale che pubblica news su una determinata area, con informazioni false inserite in articoli di cronaca che parlano di fatti reali, diventa veramente complicato orientarsi. Quindi l’intelligenza artificiale, come tutto, è uno strumento, assolutamente potente, che nelle mani di un malintenzionato può diventare molto pericoloso.
Questa commistione tra fatti reali e inventati è una delle maggiori insidie per gli utenti.
Sì, un aspetto che rende sempre le fake news difficili da riconoscere è il fatto che molto spesso in esse c'è qualcosa di vero. Ovvero si prende un’informazione e la si manipola, si aggiungono dettagli ma si conservano degli aspetti veritieri. Faccio sempre un esempio delle fake news che sono circolate durante la pandemia relativamente alle segnalazioni di eventi avversi legati ai vaccini. Chi voleva disinformare non faceva altro che riprendere il numero di segnalazioni di “sospetti eventi avversi” presentandoli come “eventi avversi ai vaccini”. Se un lettore superficiale legge quel numero e poi lo ritrova uguale nei documenti ufficiali, senza rendersi conto della leggera ma sostanziale modifica, darà credito alla notizia. A questo bisogna aggiungere che la notizia falsa è più accattivante di quella vera, perché fornisce risposte facili. Per questo le fake news viaggiano molto rapidamente nei momenti di crisi, durante guerre o pandemie: perché in quei momenti le persone hanno bisogno di risposte chiare, che le rassicurino.
Una domanda finale: è davvero possibile vincere la battaglia contro la disinformazione?
Bisogna agire su tanti fronti: demonetizzare chi disinforma, educare le persone, offrire informazioni sull’attendibilità delle fonti e sulle regolamentazioni. Il lavoro di NewsGuard è un passo, un approccio. Noi cerchiamo di fare la nostra parte e, personalmente, sono ottimista. Il problema è complesso e non facilmente risolvibile, ma io credo nell’intelligenza umana.