Come nascono le bufale e come ci si difende?

Intervista a Stephan Lewandowsky

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Professor Lewandowsky, lei è uno scienziato cognitivo all’Università di Bristol, riconosciuto come uno dei massimi esperti sul funzionamento e la diffusione di miti e disinformazione. Nel corso degli ultimi mesi abbiamo assistito a un fenomeno di infodemia in aggiunta alla pandemia di Covid-19. Quali secondo lei sono le caratteristiche di tale infodemia, e perché idee tanto implausibili ci attraggono?

Partirò dalla fine: perché in queste circostanze le persone credono alla disinformazione e alle teorie complottiste? Direi che la spiegazione del fenomeno sia piuttosto accettata: quando le persone sentono di aver perso il controllo sulla propria vita, o hanno paura che ciò possa avvenire, ecco che in alcuni casi diventano suscettibili alla disinformazione, in particolar modo alle teorie del complotto. Il motivo è che, paradossalmente, credere a una cospirazione fornisce una certa rassicurazione psicologica: per alcuni dare la colpa ai “cattivi” è più semplice rispetto ad accettare che un evento sia casuale - come un virus che compie il salto di specie da un animale all’uomo. Spaventa molto l’idea che un evento di grande portata come questo, un evento in grado di cambiare il mondo e di cui tutti paghiamo le conseguenze, sia dovuto al caso. Un meccanismo niente affatto sorprendente che accade da centinaia di anni: nel Medioevo per una pestilenza si incolpavano gli ebrei e divampava l’antisemitismo.

L’altra questione è: come sono fatte le teorie del complotto, e come facciamo a individuarle? Di fatto, uno dei problemi è che al mondo esistono davvero delle cospirazioni: ne possiamo elencare molte, come il Watergate e l’Irangate in politica, e di sicuro anche l’Italia avrà la sua parte. Come possiamo sapere, allora, quando chi propone un complotto non sta pensando a qualcosa di reale, ma sta invece inventando una teoria? Uno degli indizi da considerare è il modo in cui la persona ragiona quando ne parla: che tipo di retorica usa, che tipo di argomentazione costruisce. La cognizione umana se la cava bene nel raffigurare la realtà; se guardiamo alla performance cognitiva delle persone, non è perfetta ma piuttosto buona. Sappiamo inoltre, dal punto matematico e filosofico, cosa rende la nostra capacità cognitiva uno strumento efficace a tale scopo: sappiamo per esempio come dovremmo reagire alle prove in modo da massimizzare le nostre conoscenze. Ora, se guardiamo alle persone che credono alle teorie cospirative, vediamo che violano tutti i presupposti che permettono alla cognizione di disegnare bene la realtà. Se il modo di ragionare di qualcuno va contro a tutto ciò che sappiamo su come si dovrebbe pensare per comprendere la realtà, allora è possibile che quella persona non sia molto brava a tracciare la realtà. Non è una prova, ma è un buon indizio.

Una caratteristica notevole delle teorie del complotto, a mio parere, è la tendenza a essere internamente contraddittorie e incoerenti. Nel caso del Covid troviamo un ottimo esempio: in rete è circolato un video in cui una pseudo-scienziata, intervistata al riguardo, affermava che il virus fosse dentro di noi sin dall’infanzia, che ci fosse stato trasmesso attraverso le vaccinazioni, e che ora dopo decenni si fosse scatenato perché abbiamo iniziato a indossare le mascherine. Si tratta ovviamente di una totale assurdità, ma l’aspetto interessante è che nella stessa intervista, solo pochi minuti più tardi, la stessa persona asseriva che il virus era stato inventato in un laboratorio bellico in Cina e liberato a gennaio. Delle due l’una: o si tratta di un’arma biologica, oppure l’abbiamo da tutta la vita e le mascherine lo innescano, però le due cose non possono coesistere. Entrambe queste affermazioni sono sciocchezze, ma in questo caso non dobbiamo neanche preoccuparci se l’una o l’altra siano vere, dato che è la contraddizione stessa a invalidare la teoria. La realtà non si contraddice: la Terra non è contemporaneamente rotonda e piatta, è proprio solo rotonda e non piatta. Questo è un modo per distinguere con buona probabilità una teoria del complotto da una vera cospirazioni vera o da un’informazione utile: una volta compreso, diventa abbastanza semplice giudicare le persone e le discussioni intorno a noi.

Le teorie del complotto tendono a semplificare la realtà e a renderla più accettabile, soprattutto per chi, come ha detto prima, pensa di non avere il controllo su ciò che lo circonda. Ci sono altre caratteristiche psicologiche distintive in coloro che abbracciano le teorie cospirative?

Sì, conosciamo bene le caratteristiche di queste persone. In genere si tratta di individui che si sentono emarginati, non rappresentati, e che (anche al di là della pandemia) non credono di vivere la vita cui avrebbero diritto. Se chiediamo loro se si sentano parte della società, o quanta fiducia ripongano nelle istituzioni, emerge che spesso si sentono lasciati fuori e non si fidano di niente: né del governo, né dei media, né degli studiosi, né dell’establishment, neppure dei propri vicini o dell’autista dell’autobus. Questo è anche il motivo per cui non tutti credono alle teorie del complotto: lo fa solo un certo numero di persone, e dato che ci siamo fatti un’idea abbastanza precisa del loro profilo, possiamo quasi predire sulla base di varie caratteristiche quanto sia probabile che credano nelle teorie cospirative.

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©CHRISTOPHER DOMBRES Wikimedia


Se volessimo creare una notizia o una teoria del complotto e farla sembrare reale, quali caratteristiche imprescindibili dovremmo attribuirle?

È davvero affascinante osservare come sorge una teoria del complotto e ripercorrerne la storia. Se guardiamo alla loro origine, vediamo che di solito le teorie vengono testate su internet nelle chat room, spesso in quelle di estrema destra, che tendono a fabbricare storie del genere. Non tutte prendono piede o diventano virali su Facebook, Twitter o altrove: molte finiscono lì. Penso che sia una specie di esperimento evoluzionistico, con individui dalle idee simili che comunicano fra loro finché qualcosa non scatta e la teoria decolla. Possiamo cercare di prevedere quali teorie abbiano maggiori possibilità di farcela, ma penso che parecchio dipenda dal caso e che sia molto difficile saperlo in anticipo.

Probabilmente sarà qualcosa che fa leva sulle nostre emozioni, specie quelle negative: la disinformazione non è quasi mai gioiosa. È molto più probabile che sia una teoria oscura, terrificante, sinistra, come Bill Gates che impianta microchip nelle nostre teste. E come questa di Bill Gates, alcune idee sono stravaganti, perché se la teoria è totalmente assurda moltissime persone la condivideranno proprio per il suo carattere divertente o bizzarro.

Più queste idee si diffondono e attraggono attenzione, più alcune persone ci crederanno. Se anche non ci credono, ne saranno lo stesso influenzate: sappiamo infatti che è sufficiente entrare in contatto con una teoria cospirativa per ridurre il proprio coinvolgimento con la società e la politica, per allontanarsene un po’, perciò il danno ci sarà comunque.

Deve andare contro l’establishment, o non sarebbe una teoria del complotto. Non dirà, per esempio, che gli scienziati stanno facendo un lavoro fantastico e hanno mappato il virus in due settimane, cosa effettivamente accaduta (e sapere già così tanto del virus è un risultato incredibile). Nessuna disinformazione andrà mai a evidenziare un risultato simile, piuttosto accuserà i medici di essere al soldo delle industrie farmaceutiche o di George Soros o di Bill Gates. Sappiamo quindi che sarà anti-establishment, che avrà una trama oscura e forse elementi assurdi, che conterrà accuse e che farà appello alle nostre emozioni negative, ma a dirla tutta è difficile prevedere al di là di questo. Non credo si possa dire in anticipo chi farà la parte del cattivo nella storia, se Bill Gates, George Soros, io o lei.

A suo giudizio, quando una teoria del complotto si pone alla stregua di un credo religioso? Penso per esempio a QAnon, diventato come una rivelazione di qualcosa che verrà.

Dipende da quanto si voglia estendere l’analogia con la religione. Per definizione la religione non si basa su prove, né si suppone che lo sia: si basa sulla fede, ossia richiede che si creda in qualcosa. In un certo senso con le teorie del complotto ci troviamo in una situazione molto simile: sebbene esse sostengano di essere basate su prove, infatti, a guardar bene quelle non esistono. Per quanto riguarda sia QAnon, sia le teorie cospirazioniste intorno a Covid-19, vale la pena notare un altro fatto interessante: si usa l’assenza di prove come prova stessa del complotto. Chiediamo a un complottista perché manchino le prove dell’insabbiamento operato dal Center for Disease Control, Bill Gates eccetera: la sua risposta sarà che i responsabili hanno nascosto talmente bene le proprie tracce da non lasciare il minimo segno. Anche nel caso di QAnon non c’è assolutamente alcuna prova di niente di tutto ciò, ma proprio tale assenza sottolinea che la cospirazione è tanto malvagia e potente da non lasciare alcuna traccia. Se non si è interessati alle prove ci si può inventare qualsiasi cosa.

In più i seguaci di QAnon asseriscono che ci sarà una rivelazione; lo dicono dal 2016, quando Trump fu eletto, e sembra sempre che stia per accadere da un momento all’altro. È come una setta religiosa millenarista in attesa della fine del mondo che non arriva mai.

Proprio così. A mio avviso, quando si ripone molta fiducia in una simile credenza poi diventa estremamente difficile allontanarsene; accade con qualsiasi tipo di investimento. Pensiamo al modo in cui le persone si comportano con il denaro: l’errore commesso più di frequente è spendere soldi per cose inutili o che non funzionano, per cause perse; dopo qualche anno salta fuori che, a tirarsi indietro all’inizio, si sarebbero risparmiati centinaia di migliaia di euro. Ma la gente non lo fa comunque: ha fatto un investimento e non vuole perderlo, anzi investe di più.

Penso che lo stesso meccanismo valga per le sette e per le teorie del complotto. Di fatto, se pensiamo al modo in cui possiamo trattare con i complottisti convinti quando proviamo a dialogare con loro, e lo confrontiamo ai sistemi per tentare di deprogrammare i membri delle sette, notiamo somiglianze sorprendenti: in entrambi i casi troviamo credenze profondamente radicate e un forte impegno. Non ci si allontana da una setta dalla sera alla mattina, ma è un processo lungo e doloroso che richiede molto supporto e terapia psicologica – e lo stesso vale per i complottisti irriducibili. Non si allontaneranno da QAnon da un giorno all’altro: è la loro vita e la loro identità, gli hanno dedicato molto. Ovviamente solo un numero limitato di persone entra nel tunnel tanto in profondità, ma qualcuno lo fa, e diventa davvero difficile raggiungerli e tirarli fuori.

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©IFLA Wikimedia
Lei ha studiato inoltre quanto sia difficile decostruire tali credenze: c’è il rischio di aiutare la disinformazione a diffondersi ancora di più, rendendola più familiare al pubblico, quando si prova a smontarla. Quali consigli può dare agli scettici che desiderano fare un buon lavoro senza peggiorare la situazione?

È una questione complessa e ricca di sfumature. Immaginiamo una qualche teoria del complotto ridicola, per esempio una secondo cui il Prodigioso Spaghetto Volante si sta mangiando tutti i lampioni di Venezia: se nessuno eccetto tre persone su Facebook la conosce, ha senso smentirla? Secondo me no, non dovremmo attirare l’attenzione su una storia del genere; si andrebbe soltanto ad aggiungere al rumore di fondo che già abbonda in rete e nel dibatto pubblico. In una situazione simile si potrebbero in effetti peggiorare le cose semplicemente col rendere la teoria più popolare.

Detto questo, quando conduciamo esperimenti controllati per correggere le credenze delle persone vediamo che ciò risulta efficace in oltre il 90% dei casi, quindi farlo non produce un danno. In pochissime circostanze si verifica il backfire effect controproducente, NdR , ovvero ci si ritrova in una condizione peggiore che se non si fosse fatto niente: tuttavia sono molto rare e si verificano con un certo tipo di persone e in certi casi, quando vengono messi in discussione elementi di fondamentale importanza per la loro visione del mondo e per la loro identità. A parte quelle situazioni, correggere le persone funziona, in prima approssimazione. Il problema è che funziona solo a un livello.

Se correggiamo le idee sbagliate e in un secondo momento chiediamo alle persone quali siano le loro idee, ci risponderanno razionalmente e correttamente di aver cambiato idea. Questo primo passo funziona bene. Poi però troviamo il secondo livello, quello che tocca la mentalità e i comportamenti delle persone: stando a quanto emerge, nella maggior parte dei casi questi sono molto più difficili da modificare. Per portare un esempio, nell’ultimo paio d’anni sono usciti vari lavori scientifici, alcuni dei quali a nome mio, dove mostriamo come si possano correggere le convinzioni dei votanti circa certe affermazioni di Donald Trump. Se Donald Trump afferma qualcosa di errato, possiamo dire che su quello non aveva ragione; allora le persone, anche coloro che supportano Donald Trump, aggiornano le proprie credenze. Accettano il fatto che avesse avuto torto, e sono pronte a riconoscerlo anche una settimana più tardi. Eppure, non fa alcuna differenza per il loro sentimento nei confronti di Donald Trump o le loro intenzioni di voto: si crea uno scollamento, per cui sapere che qualcosa è falso non ha alcun effetto sul resto. Lo stesso vale in altre circostanze: se mostriamo alle persone che una certa idea è erronea, loro accettano la correzione, ma poi continuano a utilizzare l’informazione iniziale che era stata riconosciuta come falsa. Possiamo insomma modificare ciò che le persone dicono, ma non sempre siamo in grado di influenzare la loro mentalità o il modo in cui utilizzano le informazioni, anche quando sanno che sono errate. Si tratta di un comportamento paradossale ma piuttosto comune, e qui sta la difficoltà.

Come descriverebbe il processo di prebunking (smascheramento preventivo, NdR), che altrove ha paragonato a un vaccino contro la disinformazione?

Sembra essere un sistema efficace: avvertendo in anticipo le persone che potrebbero essere mal informate, specie se dicendo in che modo saranno mal informate, si rafforza la loro resilienza rispetto a tale disinformazione. Ecco perché, tornando a quanto dicevamo prima, ritengo sia così importante conoscere le caratteristiche delle teorie del complotto e sapere che sono incongruenti: quando le persone ne sono al corrente, prestano attenzione alla presenza di incoerenze e riescono a individuarle, allora è probabile che faticheranno a credere alla teoria, riconoscendo invece che qualcosa non torna. Comprendere la retorica della disinformazione, dunque, aiuta a mettere in guardia le persone. Ci sono prove piuttosto solide a sostegno di questa idea, che rientra per l’appunto fra i miei progetti correnti: stiamo lavorando proprio ora a definirla in maniera più chiara.

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©Open Clipart-Vectors da Pixabay
Quando discutiamo con chi sostiene false credenze e teorie del complotto, abbiamo l’impressione di parlare al muro. Cosa suggerisce di fare a chi si ritrova persone così in famiglia, per esempio?

Quella è la parte difficile, dato il coinvolgimento personale; né purtroppo ho una soluzione perfetta da offrire o la garanzia che andrà tutto bene. Posso però suggerire un paio di mosse. La prima è parlare a tutti gli altri componenti della famiglia (non al diretto interessato) e spiegare cosa sta succedendo, in modo da far presa su di loro.

L’altra tattica, se ci si vuole davvero impegnare a fondo, è comportarsi con l’individuo in questione come si farebbe per aiutarlo a uscire da una setta, offrendo cioè il nostro sostegno attraverso l’empatia. Invece di dargli dello stupido, possiamo dire qualcosa di gentile: per esempio che capiamo le sue ragioni, che lo scetticismo è un’ottima cosa, ma che potrebbe magari provare a mostrarsi scettico anche rispetto a ciò in cui crede lui, e non solo verso ciò in cui crediamo noi. Se la persona si lascia coinvolgere, se dimostra interesse, con il tempo e sempre con delicatezza possiamo aiutarla ad allontanarsi da certe idee.

Occorre tuttavia investire molto del nostro tempo e impegno per cambiare una sola persona. È di gran lunga preferibile impiegare le nostre risorse per tutto il resto del mondo, cercando di renderlo resiliente alle teorie del complotto. Dobbiamo sempre riflettere su come vogliamo investire i nostri sforzi: per quanto mi riguarda, ho deciso di non dedicare il mio impegno contro i negazionisti climatici, complottisti o attivisti no-vax ostinati, e raccomando agli altri di fare lo stesso. È molto più importante investire il proprio tempo nel vaccinare il resto della popolazione contro la disinformazione, segnalando i ragionamenti fuorvianti: ne vale di più la pena.

Tirando le somme possiamo dunque dire che, invece di smontare ogni singola bufala o asserzione, sarebbe meglio coltivare lo spirito critico, specialmente nelle generazioni più giovani.

Certamente, sono dello stesso avviso; anzi, direi di non limitarsi a quello. Da molto tempo insegniamo il pensiero critico nelle università, con il risultato che gli studenti hanno cominciato a considerarsi persone molto scettiche e a trovare problemi col tale studio o la tale scoperta: la metà delle volte, però, il problema non c’è. Insegnare il senso critico, infatti, spesso porta le persone a dubitare di qualsiasi cosa; considerandosi pensatori critici decidono di criticare proprio tutto, anche la nozione della Terra tonda. Ritengo perciò che sia necessario insegnare piuttosto a fare una “distinzione critica” fra cose probabili e cose inverosimili. Non dobbiamo creare generazioni di cinici scettici su tutto, ma far sì che le persone credano in ciò in cui vale la pena credere: un concetto intuitivo sul quale però non si insiste abbastanza. Ad esempio, io non sono critico nei confronti dei manuali di matematica: dal momento che sono stati revisionati e immessi sul mercato senza che nessuno ci trovasse errori, presumo che i teoremi riportati siano giusti e do credito a tali informazioni. Al contrario, sono molto critico rispetto a quanto leggo su internet, per cui non credo automaticamente a qualsiasi tweet sul Covid.

Per fortuna ci sono modi, anche molto semplici, per insegnare a fare un distinguo su internet. Possiamo spiegare come per valutare la credibilità di una fonte in rete non sia sufficiente controllare il sito web e leggere le informazioni che fornisce su sé stesso; farlo serve solo fino a un certo punto, mostrando magari se appaiono vari errori ortografici (che già sarebbe un segno), ma senza dirci nulla a proposito della sua attendibilità. Ecco che dunque – e questo è il lavoro dei fact-checker - bisogna aprire varie pagine diverse per sapere cosa gli altri dicono a proposito del sito, se altri lo hanno identificato come ingannevole, se altri lo ritengono attendibile, prestando inoltre attenzione a chi sono queste persone. Se per esempio il New York Times (e non dico che sia un punto di riferimento perfetto) dice che si tratta di un ottimo sito, è abbastanza ragionevole. Se invece sono solo siti web di estrema destra o estrema sinistra a sostenerlo, faccio bene a essere scettico. È un sistema che possiamo trasmettere facilmente, già dopo una settimana di pratica le persone sono in grado di distinguere molto meglio fra informazioni vere e false.

Per concludere, vuole dirci qualcosa delle sue pubblicazioni più recenti?

Ho appena pubblicato una breve guida dal titolo “The Conspiracy Theory Handbook” a John Cook, NdR , disponibile online gratuitamente – basta cercarla su Google. In essa è riassunta gran parte della letteratura esistente sulle teorie del complotto; è lunga solo una decina di pagine ma contiene molte informazioni, ciò di cui abbiamo parlato oggi e altro ancora su come smentire le teorie del complotto. È prevista inoltre l’uscita di un manuale che tratta il debunking in termini più generali. Dovrebbe uscire fra alcuni mesi: restate sintonizzati!

Traduzione di Veronica Padovani, revisione editoriale di Beatrice Schembri
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