Democrazia e scienza

Perché lo slogan "la scienza non è democratica" è, a dir poco, infelice

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A un certo punto, il giornalista Massimo Fini perse la pazienza e sbottò: “Insomma, democrazia non significa semplicemente che io infilo una scheda in un’urna ed esce il nome di Schifani!”. Stava partecipando a un dibattito televisivo nel quale tutte le altre persone presenti sembravano voler ridurre il concetto di democrazia all’esercizio del diritto di voto. Più si vota, più c’è democrazia; meno si vota, meno ce n’è. Tanto basti.

Questo piccolo episodio può leggersi come un sintomo, tra i tanti, di una sempre più diffusa visione riduttiva della democrazia. Visione che, a mio modesto avviso, troviamo all’origine della fortuna di un’espressione come “la scienza non è democratica”, utilizzata assai spesso e con grande convinzione da molte persone schierate a favore della scienza, ma che, secondo altre persone schierate altrettanto nettamente a favore della scienza, sarebbe da evitare con cura. Cercherò pertanto di chiarire, nella prima parte dell’articolo, come il riferimento alla democrazia sia, in questi casi, un riferimento a un’entità “di paglia” e non alla democrazia in senso proprio. Nella seconda parte, proverò a illustrare alcuni dei rapporti (ottimi!) che possono intercorrere tra la democrazia correttamente intesa e la scienza.

Che cosa significa, allora, “democrazia”?


Anche nelle sue versioni più rudimentali, la democrazia è un meccanismo estremamente complesso, che si può studiare seriamente solo se si è disposti ad affrontare testi specialistici né semplici né brevi. Alcuni aspetti, tuttavia, sono abbastanza facili da comprendere, se si vuole.

Una delle caratteristiche fondamentali della democrazia è la divisione dei ruoli[1], con l’assegnazione di compiti specifici e l’attribuzione di poteri ben circoscritti a determinati soggetti. Qualunque tipo di ordinamento democratico si prenda in considerazione, i vigili del fuoco non pronunciano sentenze, né conferiscono lauree. Di converso, non ho notizia di magistrati chiamati nel cuore della notte a spegnere incendi per dovere d’ufficio e, se un professore universitario sale su un albero per trarre in salvo un gattino spaventato, lo fa probabilmente di propria iniziativa, come un qualunque privato cittadino[2]. Non solo. Per quanto riguarda le sentenze, un tribunale civile non può, per esempio, pronunciare sentenze penali, amministrative o d’altro tipo, né può un giudice penale emanare sentenze civili, tributarie o comunque non penali. Inoltre, è necessario che il giudice sia competente per territorio. Soltanto se poi quel giudice è collegiale (vale a dire, non monocratico), si ha una sorta di votazione. Ciò avviene, comunque, al termine di un lungo procedimento, nel corso del quale sono state acquisite e valutate prove (completamente diverso da ciò che avviene nel mondo scientifico, oppure no?). Se la sentenza è impugnata, si dà vita poi a una specie di peer review (sempre più diverso dalla scienza, o forse no?). Tutto questo accade in ogni ordinamento democratico. Più un dato sistema giuridico è democratico, più coloro che ne fanno parte sono attenti alle procedure, come pure alle competenze. Fondamentali, per la democrazia, sono i controlli e l’equilibrio generale del sistema; in inglese, checks and balances (leggo assai spesso, a tale proposito, di “pesi e contrappesi”, formuletta con cui si può tradurre la seconda parte della locuzione anglosassone, balances; il termine “controlli”, con il quale si può tradurre la prima parte, checks, è di solito tralasciato, il che forse dice parecchio su talune italiche propensioni[3]; ma questo è un altro discorso[4]).

In tutti i sistemi democratici sono stabiliti specifici percorsi di studio e tirocinio per le singole persone che aspirano a ricoprire un ruolo in una magistratura o a prendere servizio come vigile del fuoco, per esempio. Tutti ci aspettiamo che questo rappresenti la normalità in qualunque Paese democratico. Se vado in giro per il mio quartiere alla ricerca di uno studio odontoiatrico, certamente faccio affidamento sul dato di comune esperienza secondo cui una targhetta con la scritta “dentista” implica che lo Stato, attraverso vari soggetti competenti, abbia controllato (o, comunque, possa controllare) che la persona sulla quale conterò per salvaguardare la salute del mio apparato masticatorio abbia completato lo specifico percorso di studio e formazione professionale. Non credo che sarebbe “più democratico” uno Stato che permettesse a chiunque di svolgere qualunque professione, anche la più delicata o pericolosa, in qualunque momento.

Di per sé, le votazioni — sia ben chiaro — sono una cosa molto seria. Ogni ordinamento democratico, infatti, stabilisce chi, come, su che cosa, dove, quando può votare: tutte le famose “5 W” del giornalismo, più altro ancora[5]. Cruciale è anche quel che precede il momento del voto: elettrici ed elettori hanno avuto accesso a informazioni corrette sulle questioni rilevanti per una scelta consapevole, oppure i mezzi d’informazione non sono stati abbastanza liberi o capaci, o magari è stata favorita, in qualche modo, una diffusione su larga scala dell’analfabetismo più o meno di ritorno? Su ognuna di queste tematiche sono stati condotti numerosi studi e ricerche a livello praticamente planetario. L’essenza stessa di ogni sistema democratico, anche in relazione all’esercizio del diritto di voto, richiede necessariamente controlli, procedure, protocolli (termini, questi, che credo suonerebbero familiari ai medici che, per avventura, si trovassero a leggere queste righe; di sicuro suonano familiari al sottoscritto anche in qualità di paziente). In nessun Paese democratico al mondo vige un principio secondo il quale tutti i cittadini possano votare, nelle forme decise da loro, su tutto quel che possa venire loro in mente di sottoporre a votazione. “La maggioranza vince, a che gioco vuoi giocare?” è una filastrocca che va bene per i bimbi nei giardinetti, ma c’entra poco con i princìpi del sistema democratico, di qualsivoglia sistema democratico. Da molto tempo, anzi, tra i temi cruciali attinenti ai princìpi degli ordinamenti democratici oggetto di dibattito e studi approfonditi, troviamo proprio la tutela delle minoranze. Intese non soltanto nel senso di minoranze “etniche” o “religiose”, ma anche con riguardo ad altri gruppi che possano risentire di uno strapotere della maggioranza.

Per la scienza, meglio che vi sia democrazia

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I rapporti tra democrazia e scienza sono, per così dire, potenzialmente infiniti. Riprendendo il tema della salute, è chiaro che un ordinamento può ritenersi maggiormente democratico se garantisce l’accesso alle cure mediche anche a chi, privo di adeguati mezzi economici, non potrebbe pagarsele da sé. Esistono però molti altri collegamenti logici e pratici tra salute, scienza e democrazia. Immaginate una scolara che manifesti uno spiccato interesse e una grande capacità di apprendimento in relazione a qualche materia scientifica. Uno Stato genuinamente democratico la sosterrà nel percorso di studi se la famiglia, sfortunatamente, non possiede mezzi sufficienti (ben venga anche il sostegno da parte di enti privati, poi, naturalmente). Di ciò beneficeranno, molto probabilmente, non soltanto la scolara ma anche la comunità scientifica, che trarrà vantaggio dal lavoro di ricerca svolto da una persona particolarmente dotata di talento; persona che, altrimenti, non sarebbe mai entrata a farne parte. Così in democrazia si cerca di evitare che la possibilità di reclutare persone particolarmente capaci, anche da parte delle istituzioni scientifiche, sia circoscritta e limitata alle sole persone provenienti da famiglie facoltose, rampolli che non sempre possiedono il talento della nostra scolara (poi studentessa, poi scienziata, poi magari Premio Nobel). Tali sono, infatti, le vie della democrazia, nella teoria e nella pratica. Quando mi fu diagnosticato un tumore maligno, certamente non pensai che si dovesse riunire un comitato di quartiere affinché votasse, in base a chissà quali considerazioni, per decidere il percorso che avrei dovuto intraprendere per salvare, possibilmente, life and limb: quali terapie radiologiche, farmacologiche, chirurgiche, e così via (e quali invece no). Davvero qualcuno può pensare che un simile modo di procedere sarebbe stato più “democratico”? (A dire il vero, i vicini di casa mi consigliarono una struttura ospedaliera che consideravano d’altissimo livello; accolsi il suggerimento con gratitudine, ma ovviamente si trattava di una struttura ufficiale, ufficialissima, altrimenti non avrei mai dato loro retta.) I tanti attivisti e commentatori che quotidianamente proclamano, con un certo orgoglio e una qualche aria di sfida, che “la scienza non è democratica” presuppongono che la “democrazia” richiederebbe alla scienza medica di affidarsi a votazioni irrituali da parte di questo o quel gruppo di cittadini? Davvero tali votazioni sarebbero espressione di una più compiuta democrazia, così com’essi paiono immaginarla, la quale farebbe affidamento su meccanismi assai diversi da quelli ritenuti corretti da loro (e, senza ombra di dubbio, anche da me)?

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In tema di vaccinazioni, poi, numerose sono le riflessioni che l’attualità (purtroppo) suggerisce. Limitiamoci, qui, ad alcune. I genitori, normalmente, si occupano — anzi, hanno proprio il dovere (insieme al potere) di occuparsene — del benessere dei figli e, in misura decrescente con il trascorrere del tempo, d’innumerevoli aspetti della loro vita. In linea di prima approssimazione, i genitori sono certamente le persone più indicate per esercitare tale potestà (almeno sino a quando non si rivelino, cosa che ogni tanto può capitare, inadatti o anche gravemente inadatti a svolgere i loro delicati, basilari compiti). Tuttavia, non ci si aspetta, per esempio, che i genitori educhino i figli da soli. Anzi, esiste nel nostro sistema un istituto fondamentale come la scuola dell’obbligo, la cui stessa esistenza ci fa capire come non tutto quel che riguarda la cura dei figli sia demandato ai genitori in prima persona. Istituto che ritroviamo, naturalmente, in tutti i Paesi democratici. In tema di vaccini, molti genitori ritengono di avere il diritto di decidere, senza dover rendere conto a nessuno, se e quando vaccinare i propri figli. Invocano, in proposito, una libertà di scelta che ritengono inalienabile. Ogni eventuale intromissione dello Stato è vissuta, da loro, come una lesione di un irrinunciabile diritto di scelta, espressione appunto della loro libertà e della loro sacrosanta autonomia. In realtà, però, si tratta di scelte i cui effetti ricadono direttamente su altre persone. Perché i figli, non dimentichiamolo, sono altre persone rispetto ai genitori. Non sono mere emanazioni o appendici dei loro genitori; non sono proprietà dei genitori. I figli sono essi stessi persone, dunque titolari di diritti soggettivi. Anticamente, è vero, in capo ai genitori (principalmente al padre) vi era quello che i Romani definivano ius vitae ac necis. Era normale, cioè, che il padre decidesse della loro vita ed eventualmente della loro morte. Ecco, se si tornasse ad attribuire ai genitori una così grande libertà di scelta, si sarebbe più democratici? Se un gruppo di genitori, più o meno numeroso, si riunisse e “votasse” (non riesco a immaginare con quale procedura) a favore di un ritorno a quelle antiche tradizioni, ciò costituirebbe una genuina manifestazione di democrazia?

Che dire, inoltre, del metodo scientifico in sé, fondato sulla ricerca e l’analisi di prove anziché, per esempio, su mistiche rivelazioni? Anche qui dovrebbe risultare evidente il carattere assai più democratico rispetto, per restare al nostro esempio, alle religioni. Chiunque abbia la buona volontà e l’intelligenza necessarie per affrontare un impegnativo percorso di studi e ricerche può imbattersi in una scoperta in grado di modificare alcuni parametri di riferimento importanti per la comunità scientifica. Ebbene, le sue prove avranno, di per sé, esattamente lo stesso valore delle prove portate dalle massime autorità scientifiche. Certo, non sarà facile, per questa persona, trovare udienza e persuadere soggetti influenti all’interno della comunità scientifica ad accogliere tesi particolarmente innovative. Difficoltà analoghe si trovano, però, in tutti gli altri settori della società, in relazione a pressoché tutte le attività umane. Nella letteratura, nella musica, nel giornalismo, nello sport, persino nella moda, mi dicono. Immaginate un ragazzino dotato di grande talento calcistico. S’egli vive in un paesello lontano dai centri urbani dove normalmente operano le grandi società sportive, sarà per lui difficile incontrare addetti ai lavori che potrebbero eventualmente valorizzare il suo talento. (Non solo sarà improbabile che gli siano aperte le porte alle quali avrà bussato; gli sarà difficile, ancor prima, trovarle.) Tuttavia, ciò sarà possibile, anche se tutt’altro che facile, nel mondo dello sport così come in quello della ricerca scientifica. Provate, invece, a portare prove a sfavore della transustanziazione davanti alle competenti autorità religiose: questo è inconcepibile, quasi per definizione. Con riguardo alla scienza, così come all’arte, allo sport e così via, è del tutto normale che uno Stato democratico si ponga l’obiettivo di rendere meno arduo, per chi non provenga da famiglie agiate o in qualche modo “ammanigliate”, il cammino verso meritati obiettivi professionali (non limitandosi peraltro, uno Stato veramente democratico, a utilizzare alcune categorie di talenti sulla scena internazionale a fini propagandistici). Chi si troverà poi a svolgere attività di ricerca scientifica, potrà quindi far valere le proprie idee, confortate da prove, in quel campo. Dove, a differenza di quanto accade (per esempio) in uno dei c.d. Stati esigui che mi sembra particolarmente famoso ma non altrettanto democratico, non è già stato scritto tutto, o quasi tutto, in una raccolta di libri antichi.

In ogni caso, la massima parte della vita democratica si svolge, giorno dopo giorno, attraverso attività di ogni genere che nulla hanno che fare con votazioni di qualche tipo, né con il costituirsi di maggioranze o minoranze di sorta. Indubbiamente, quello del voto è un momento importantissimo, fondamentale per ogni democrazia, ma rimane comunque uno, solo uno, dei suoi svariati aspetti. Banalizzare il concetto di democrazia tanto da renderla sovrapponibile all’immagine di un’urna dalla quale, a un certo punto, esce Schifani significa proporne un’idea estremamente riduttiva. Aveva ragione, quel giornalista[7], a cercar di chiarire questo concetto in maniera incisiva (mostrando anche un certo fastidio, dato che il concetto sarebbe dovuto risultare ovvio per tutti). Personalmente, considero l’atteggiamento di chi riduce — sia pure implicitamente — il concetto di democrazia a entità pressoché unidimensionale (declassando il termine “democrazia” quasi a mero sinonimo di “votazione”) decisamente offensivo. Un po’ come se io mi mettessi a dire: “Ah, sapete, lo studio della Composizione è molto complesso; comprende materie quali solfeggio, armonia, contrappunto, canto corale, teoria e analisi compositiva, orchestrazione, lettura della partitura e altro ancora. Non è banale come la fisica quantistica, che si occupa soltanto di gatti e cianuro”[8].

Fortunatamente, circolano molti altri slogan, utilizzati al medesimo scopo, che mi paiono invece accettabili e, in qualche caso, persino brillanti. Un’espressione che, più di una volta, mi è capitato di leggere — e persino di ascoltare dalla voce di Piero Angela — e che a me personalmente piace molto, è la seguente: “la velocità della luce non si decide per alzata di mano”. Sì, mi pare un modo di esprimersi tanto efficace quanto corretto, finalmente. A differenza dello slogan che mi sono sentito in dovere di criticare[9], non crea infatti particolari problemi. Ora, se qualcuno giunto sin qui nella lettura non coglie l’enorme diversità tra la banalizzazione del concetto di “democrazia” e il riferimento a qualche “alzata di mano”, be’, ciò significa che, per sbaglio, ho scritto quest’articolo in cinese.

“Freedom is the freedom to say that two plus two make four. If that is granted, all else follows.” — George Orwell

Note

1) Pare quasi pleonastico ricordare qui il principio della separazione dei poteri secondo Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu e John Locke.
2) Allo stesso modo, potete aspettarvi di essere arrestati solo da pubblici ufficiali che abbiano, tra i vari compiti loro assegnati, anche questo. L’arresto da parte di un qualunque privato cittadino di cui all’art. 383 del codice di procedura penale rappresenta, evidentemente, un’eccezione.
3) Ho usato Google per tradurre checks and balances in francese; ne è risultato freins et contrepoids. A quanto pare, stando al traduttore automatico, in Francia si preferisce parlare di “freni” (che sono comunque più del nulla italiano) oltre che di “contrappesi”. Traducendo quindi in cinese, ho ottenuto 检查和平衡. 检查 significa naturalmente “ispezioni”, “controlli”. Non “pesi”. Quindi, neppure la Cina è vicina. Questo vale ancor più per la Norvegia: Sjekker og kontobalanser.
4) Nei Paesi anglosassoni è d’uso comune, addirittura, il verbo to double-check.
5) v. art. 1, Cost. «(…) La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.»
6) Sui rapporti tra non-democrazia e non-scienza, v. per es. “La scienza assassina” di Paolo Cortesi, sul n. 24 di questa stessa rivista.
7) Giornalista e scrittore dalle cui idee mi sono sempre sentito lontano. Probabilmente, anche per questa ragione è rimasto impresso nella mia memoria il momento in cui vi fu bisogno di Massimo Fini per riportare, a mio modo di vedere, un po’ di ragionevolezza in un dibattito.
8) Ripensandoci, non c’è bisogno di una nota, qui, per chiarire il riferimento al “gatto di Schrödinger”.
9) Anche perché “science is not a democracy” sta purtroppo diventando, a livello mondiale, una sorta di mantra. Verrebbe da coniare un nuovo slogan: “Democracy is not a blog”.
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