Il mondo in crisi: le lezioni della storia

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  • 02-02-2021
  • di Alessandro Barbero
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Alessandro Barbero. ©Wikimedia
Si dice spesso che conoscere la storia è il modo migliore per non ripetere gli errori fatti, ma suona forse un po’ troppo ottimistico. Gli errori fatti si ripetono comunque, e la storia può insegnare tante cose solo a patto che ci sia la volontà di starla a sentire. C’è un’unica legge sicura che si ricava dalla storia: non bisogna invadere la Russia. E ciononostante, questa cosa nessuno l’ha mai imparata, speriamo per il futuro!

Studiare la storia ci permette di sapere come la gente se l’è cavata (o non se l’è cavata) in mille situazioni, e quindi, per analogia, qualcosa da imparare ci può sempre essere.

La situazione che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, in un certo senso, non ha precedenti, non tanto per la letalità della malattia, che per fortuna nostra è estremamente bassa, e neanche per il fatto che per la prima volta una grande pandemia ha colpito non solo tutta l’Europa o tutta l’America, ma l’intero mondo allo stesso tempo. La differenza cruciale che rende questa pandemia di Coronavirus un fatto storico veramente unico è che la spagnola, tanto per citare una malattia che solo cento anni fa ha causato decine di milioni di morti e a cui viene paragonata, ha investito il mondo in un momento in cui esso aveva ben altri problemi da affrontare: la spagnola è arrivata quando la Prima Guerra Mondiale non era ancora finita, è arrivata all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre; è arrivata quindi in un mondo che da anni era devastato dalla guerra, che era assolutamente abituato alla morte, e in cui il problema di concludere il conflitto, di vincerlo, di immaginarsi un dopoguerra – per non parlare della speranza della Rivoluzione in alcuni ambienti, che era terrore in molti altri – era molto più importante dell’epidemia.

Non era quindi mai successo, come in questo caso, che tutti i governi del mondo, di colpo, nel giro di pochi giorni o poche settimane, dovessero mettere da parte problemi considerati fino al giorno prima vitali, decisivi, come ad esempio il PIL, per allocare tutte le risorse a un unico problema. E va detto che non è che l’umanità si sia fatta tanto onore, quanto a capacità di reagire in modo coeso.

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La diffusione della peste nera in Europa. ©Wikimedia
Certamente quel che sorprende dal punto di vista dello storico che si immagina come i nostri colleghi del futuro proveranno ad analizzare quello che noi abbiamo affrontato e stiamo affrontando, è proprio l’estrema convinzione con cui, almeno nei Paesi democratici, ma non solo, i governi hanno effettivamente riconosciuto che un’epidemia che rischiava di uccidere decine e centinaia di migliaia di persone, ma che era chiarissimo non ne avrebbe uccise milioni, perché – ripeto – siamo di fronte a una malattia che grazie al cielo ha una letalità piuttosto bassa, era il problema principale con cui dovevano fare i conti. In altri tempi, un problema del genere sarebbe stato affrontato diversamente. Sarebbero state adottate, chiaramente, una serie di misure, che poi sono le stesse che abbiamo messo in atto noi, ma nessuno avrebbe pensato che, per evitare un numero di morti del genere, qualunque altra considerazione politica, militare, economica, dovesse passare in secondo piano. Di sicuro fa onore agli uomini di oggi l’idea che la vita umana sia talmente sacra che anche per salvarne un numero – intendetemi, non vorrei essere frainteso – “ristretto” rispetto ai numeri dell’umanità, siamo disposti a una simile battuta d’arresto della nostra vita.

Il paradosso è questo: nonostante, a differenza dei tempi della spagnola, abbiamo posposto qualunque altra considerazione, anche cose che fino al giorno prima ci sembravano assolutamente decisive, al tempo stesso le misure che abbiamo messo in atto sono le stesse che l’umanità ha imparato ad applicare attraverso secoli di esperienza nell’affrontare le epidemie. E sono misure che in realtà sono state inventate dall’umanità abbastanza in fretta, sempre le stesse: isolare i malati, e quindi anche identificarli molto rapidamente; cercare di scoprire subito se qualcuno è malato di quella malattia e a quel punto chiuderlo in casa o in lazzaretto, e chiudere con lui i suoi familiari; identificare la presenza dell’epidemia in un dato luogo e circoscriverlo – ciò che noi chiamiamo zona rossa, ecco, noi abbiamo inventato il nome, ma queste procedure sono state inventate in buona sostanza dai nostri antenati europei tra il Trecento e il Quattrocento, cioè all’indomani della prima grande epidemia di peste, la peste del 1348. Ed è interessante vedere che noi in realtà abbiamo applicato tutte queste misure come se ce le avessimo in una specie di memoria, di subconscio collettivo. Poi immagino che nei cassetti dei ministeri della sanità ci fossero volumi di protocolli da seguire in caso di epidemia, anche se poi i giornali hanno sempre scritto che in realtà quei protocolli nessuno li conosceva e non sono stati applicati.

Ma tornando alla domanda che tutti si pongono – possiamo imparare qualcosa da quest’esperienza? Ne usciremo migliori? – la storia ci insegna che mai nessuna epidemia è stata in grado di produrre un cambiamento globale degli stili di vita. Certo, ci sono state epidemie che hanno prodotto conseguenze, soprattutto a livello demografico – il che non è il nostro caso – tali da rappresentare una svolta nella storia. Pensiamo a ciò che è successo negli ultimi secoli dell’Impero Romano, caratterizzato da grandi epidemie che hanno creato, a intermittenza, il problema dello spopolamento e della mancanza di manodopera: in passato la linea dei Romani era stata di respingere, anche massacrandoli, i popoli che si presentavano alle frontiere chiedendo terra; il Basso Impero, invece, è contraddistinto da un’immigrazione molto sostenuta e da un atteggiamento governativo che incoraggiava l’immigrazione, e l’Impero ha vissuto e prosperato integrando intere tribù, interi popoli. È interessante vedere come i Romani, i quali non avevano minimamente la nostra idea della sacralità della vita, ritenessero al tempo stesso che gli esseri umani fossero utili, e attrezzarono la loro amministrazione per mettere a lavorare e integrare gli immigrati – esattamente il contrario di quanto avviene oggi: gli esseri umani sono sacri, ma sono troppi!

Parecchi secoli dopo, nel tardo Medioevo, si è verificata la famosa peste del 1348, la peste di Boccaccio, e gli europei hanno fatto un’esperienza forse paragonabile alla nostra: si sono visti piombare addosso una minaccia imprevista e invisibile; come noi, non se lo aspettavano: anche se la Storia è punteggiata da gravi epidemie, e nel Medioevo la morte era frequente perché la vita media più breve, la peste ha ucciso in massa, a qualunque età, è arrivata all’improvviso e nessuno sapeva come curarla. La buona notizia è che appena l’epidemia è finita gli europei si sono rimessi a fare figli, a lavorare, a pensare ai fatti propri, e a vivere come prima. Si sono detti: “Va be’, l’abbiamo sfangata, adesso basta però preoccuparsi!”

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La peste nera di Firenze. ©Wikimedia


Questa prima, grande epidemia può essere in qualche modo accostata alla nostra per un’altra ragione: il dilagare di bufale. Evidentemente è nella natura umana il pensare che quando succede qualcosa sia necessariamente colpa di qualcuno. E naturalmente esistono poi sempre diverse dimensioni. In società molto religiose ci si può fare una ragione di quello che succede pensando che sia dovuto all’intervento degli dei – come nell’Atene di Pericle, o nell’Iliade, in cui l’epidemia ha un ruolo importantissimo –, che sono arrabbiati con noi. Nell’Europa del Medioevo, una società cristiana – non tanto diversa dall’età moderna – l’ipotesi è che Dio ce la stia facendo pagare e ce lo siamo meritato, anche perché la Bibbia chiarisce che Dio ogni tanto, effettivamente, perde la pazienza. È successo con il Diluvio Universale, è successo su scala ridotta con Sodoma e Gomorra, dunque ci sono i precedenti e può succedere di nuovo. Sono tutti modi per razionalizzare quello che succede. Entro le coordinate intellettuali di una certa epoca, la gente sente il bisogno di spiegare.

Su un altro livello, un’altra spiegazione all’epidemia che può sembrare più ragionevole, da un certo punto di vista, è attribuirne la diffusione a qualcuno. Noi abbiamo avuto un minimo inizio di questa reazione, con il popolo cinese, ma molto trattenuta. La società medievale è più violenta, prova passioni più forti, è meno disciplinata, meno controllata; il potere, la polizia, i giudici, hanno meno capacità di controllare la gente, e il risultato è che effettivamente la peste del Trecento si accompagna con momenti di rabbia della folla, che in alcune città si convince che la colpa dev’essere di qualcuno diverso, che non siamo noi. E chi sono i diversi in quella società?

Ci sono due tipi di diversi che vengono colpevolizzati. Uno è ovvio: gli unici non cristiani, ovvero gli ebrei; la società cristiana non ammette altre comunità religiose, e nell’Europa del Trecento stavano già aumentando diffidenza e discriminazioni verso gli ebrei. Su questo apro una parentesi: è un aspetto molto interessante e inquietante, perché si trattava di un mondo in crescita, sempre più sofisticato a livello culturale ed economico, e le paranoie e i razzismi aumentano proprio in parallelo con la crescita. A un certo punto, dunque, la gente si convince che gli ebrei odiano i cristiani perché i cristiani odiano loro, e in certe zone – c’è poco da ridere – si verificano pogrom, aggressioni e stermini. Ma c’è un’altra ristretta minoranza che in certi casi viene sospettata di aver diffuso la peste: sono i lebbrosi. Anche se oggi sappiamo che è molto meno contagiosa di altre malattie, all’epoca la lebbra faceva estremamente paura. I lebbrosi vivevano a lungo, e la gente era terrorizzata all’idea del contagio, per cui bisognava isolarli; lo si faceva in modi estremamente umani, relegandoli in piccole comunità che ricevevano delle dotazioni di terre, di rendite, un prete che dirigeva la loro comunità e gestiva il bilancio, e così i lebbrosi – i malati, come dicevano loro, perché in molte lingue medievali 'malato’ vuol dire 'lebbroso’ – vivevano. Nel 1348 ci sono stati alcuni casi di gente che si è messa in testa che a diffondere la peste erano i lebbrosi, perché invidiosi dei sani e desiderosi che si ammalassero anche loro.

Insomma, passa il tempo, ma alcuni aspetti della mentalità delle persone non cambiano, anche se abbiamo imparato a disciplinare meglio le nostre paranoie, le nostre pulsioni violente. La Storia, in fondo, non è altro che l’insieme delle vite di tutti gli esseri umani che ci sono stati al mondo. E se forse fino a ieri condividevamo con tutti gli esseri umani la sensazione che la storia in realtà non ci riguarda, che viene prima, mentre il presente è un’altra cosa, e si tratta di una materia che si può ritagliare e ignorare completamente, così come io posso ignorare – a mio danno – la geologia, forse un effetto culturale positivo dell’epidemia potrebbe essere stato proprio il farci capire che noi siamo nella storia. La storia non è qualcosa che riguarda chi ha vissuto ancora prima di noi: ci siamo dentro.
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