La lunga storia delle leggende moderne

Studiare voci e leggende del passato con i tanti metodi che le scienze umane oggi hanno a disposizione ci serve per capire la circolazione, la struttura e la forza delle leggende dei nostri giorni

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  • 06-04-2023
  • di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
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© cyano66/iStock
Le leggende moderne, quelle che gli studiosi definiscono “leggende contemporanee”, non sono figlie di Internet o della comunicazione attraverso i social media. Ogni periodo storico ha avuto le sue false notizie, le sue bufale e le sue voci incontrollate. E spesso le false storie che ci raccontiamo oggi al bar o che mandiamo ai nostri amici su WhatsApp sono eredi dirette di quelle che circolavano decenni o addirittura secoli fa.

Prendiamo la leggenda del terrorista riconoscente, diffusissima dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Suona più o meno così: in una stazione della metropolitana, un uomo dai lineamenti mediorientali perde il portafoglio. Un passante se ne accorge, lo raccoglie e glielo restituisce. L’arabo ringrazia e contraccambia con un consiglio: «Non prenda la metro alla vigilia di Natale». Il significato, a volte lasciato implicito, è palese: presto ci sarà un attentato terroristico. Chi racconta la storia del terrorista riconoscente lo fa per mettere in guardia i propri interlocutori da una futura, possibile tragedia. Che, come nella miglior tradizione delle storie inventate, non si verificherà.

Eccoci dunque davanti a una storia che mette in atto un classico meccanismo di controllo dell’ansia: a un pericolo generico, indefinito, si sostituisce un evento futuro con data e luogo precisi, e dunque una miglior possibilità di far fronte all’incertezza.

Ma questa storia non è un’invenzione moderna: trova l’antecedente perfetto in un aneddoto diffuso in Inghilterra già durante la Prima guerra mondiale. Si trattava, in quel caso, della versione del tedesco riconoscente. Un prigioniero tedesco veniva assistito da una gentile infermiera londinese. Al momento di essere dimesso, l’uomo si sdebitava con un avvertimento: «Non posso dirvi di più, ma ad aprile [1915] state attenta alla metropolitana». Con tanti saluti ai social e all’odierno mondo digitale.

Tanta tensione, tante voci (e tante fonti!)


L’evidenza storiografica è solida: da sempre i periodi di aperta e vasta conflittualità collettiva generano e rinforzano le dicerie, in buona parte dal contenuto cupo o comunque ansiogeno. Di norma, queste storie sono volte a delineare un nemico e a descriverne in dettaglio caratteristiche, capacità, modi di operare - insomma a dare una “forma” alle paure. In un’intervista televisiva del 1968, il filosofo Marshall McLuhan, ragionando in termini di teoria delle comunicazioni, diceva che nei periodi di crisi sociali gravi «an information overload produces a pattern recognition» (“Un sovraccarico informativo produce il riconoscimento di uno schema”).

Ecco dunque alcuni casi di leggende spaventose emerse ben prima dei media digitali, ma comunque in periodi di sovraccarichi informativi - in sostanza, voci trasmesse di bocca in bocca mentre accadevano gravi eventi di rilievo pubblico e dall’esito imprevedibile.

Ve le offriamo, ma con un’avvertenza metodologica: se le voci hanno un forte impatto sociale, se provocano o se si accompagnano a rivolte e stragi, sarà più probabile che siano tramandate dalle cronache del tempo rispetto a dicerie meno “pericolose” per la tenuta generale della società. In altri termini, occupandoci di voci (anche di quelle odierne, naturalmente) non dobbiamo mai trascurare che, da sempre, quelle che ricadono nella categoria crisi/conflittualità sono le più discusse, registrate e studiate.

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Il memoriale del World Trade Center a New York. La storia del “terrorista riconoscente” cominciò a circolare subito dopo gli attentati dell’11 settembre © onurkurtic/iStock


La grande paura dell’89


Il vistoso fenomeno collettivo che sconvolse la Francia per circa tre settimane nei giorni immediatamente successivi alla presa della Bastiglia (14 luglio 1789) è fra quelli che hanno fatto nascere la moderna “storia delle mentalità”. Nei concitati giorni della Rivoluzione, in molte zone del paese, a partire da Parigi e in maniera del tutto disorganizzata, cominciò a diffondersi un tremendo terrore che coinvolse gruppi sociali diversi. Stando alle voci, bande di “devastatori” (identificati, a seconda dei casi, come aristocratici in cerca di vendetta, invasori inglesi, piemontesi provenienti da sud est, briganti, gruppi di rivoluzionari…) stavano mettendo a ferro e fuoco campi, villaggi e città e presto sarebbero arrivati anche lì, dove le voci erano più insistenti. Benché prive di fondamento, queste false notizie ebbero conseguenze assolutamente reali perché finirono per sfociare in una serie di sollevazioni popolari armate. Ne La Grande Peur de 1789 (1932), un super classico della storiografia sociale, Georges Lefebvre individuò e rappresentò su una cartina cinque grandi correnti attraverso le quali queste voci si mossero lungo strade e sentieri di ogni angolo della Francia, viaggiando insieme a chi se ne faceva narratore.

Ci sono almeno due elementi della Grande Peur su cui vogliamo attirare l’attenzione. Il primo è che si tratta di una voce che produceva racconti di esperienze considerate assolutamente reali, non ragionamenti intorno a idee o supposizioni su ciò che sarebbe potuto accadere. È infatti importante sottolineare che il folklore comporta spesso racconti, anche in prima persona, in cui chi trasmette la voce o la diceria la ambienta nel presente, qualche volta riferendola a sé stesso, ai propri sensi e alla propria esperienza, o in alternativa a persone vicine (il famoso “mio cugino”) e in circostanze attuali e immediate. Questa caratteristica aumenta la credibilità e stimola il coinvolgimento emotivo. E, fra le altre cose, è uno dei meccanismi cognitivi e narrativi che hanno contribuito alla nascita di pseudoscienze come l’ufologia, lo spiritismo o la criptozoologia, che si basano tutte fortemente sulla “testimonianza veridica”.

Il secondo elemento è ancora più evidente, e ancora più rilevante ai fini del nostro discorso. Sebbene il ruolo d’innesco dell’esplosione delle paure giocato dagli avvenimenti di Parigi sia chiaro, le voci sulle devastazioni in corso o imminenti comparvero quasi in contemporanea in zone molto diverse della Francia. Inoltre, le caratteristiche attribuite ai devastatori variarono moltissimo a seconda dei gruppi sociali e delle regioni in cui le voci presero forma. Questa attribuzione multiforme sta a indicare tensioni sociali diverse e anche dinamiche, sviluppi ed esiti differenti per versioni differenti delle dicerie. In altri termini: questa varietà ci ammonisce a evitare l’errore sempre in agguato quando si discute di storia, ovvero l’attribuzione di una causa unica, forte, in grado di spiegare tutto o quasi. Zone diverse della Francia avevano contesti culturali e sociali diversi, conflitti diversi, e, dunque versioni diverse della storia e ipotesi diverse sulla natura dei devastatori.

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Manifestazione no vax in Australia. Le falsità sui vaccini sono antiche quanto le prime campagne di vaccinazione di massa dell’Ottocento © DJ Paine/Unsplash


Uccidere vaccinando


L’Ottocento è stato insieme il secolo delle grandi epidemie e delle malattie sociali (colera, tubercolosi, tifo, sifilide) e il secolo della diffusione dei primi vaccini, a cominciare da quello contro il vaiolo. L’opposizione ai vaccini, sia quella popolare sia quella di alcuni scienziati, fu subito forte, e crebbe per due circostanze: la prima fu la natura controintuitiva della procedura di Jenner e Pasteur, che avevano mostrato che introdurre nell’organismo l’agente virale attenuato era il metodo maestro per permettere all’organismo di attivare le sue difese contro alcune malattie; la seconda furono i dibattiti che si accesero in vari paesi circa l’opportunità di imporre obblighi vaccinali.

In Italia, l’opposizione alle vaccinazioni fu potentissima, soprattutto a partire dalla legge Crispi-Pagliani che impose l’obbligo dell’antivaiolosa per i nati dal 1888 in poi. Ma alle paure contribuirono anche le voci: ogni rimedio somministrato era percepito come vaccino “statale”, e nelle dicerie che ne accompagnavano la comparsa era visto come un sistema per ridurre il carico sociale costituito dagli indigenti, dagli anziani, dai bambini: semplicemente, provocandone la morte. Del resto, vennero interpretate nello stesso modo le epidemie ricorrenti: fra il 1835 e il 1911, medici, sindaci, autorità e clero furono accusati un po’ ovunque di diffondere il colera, a volte anche con sistemi bizzarri (versando “polverine” nelle fontane o nei serbatoi delle centrali del gas, lanciando fuochi pirotecnici avvelenati sulle località da infettare o palloni ad aria calda che spargevano miasmi dal cielo…).

Circa le voci sui vaccini generate da tensioni sociali acute, è fondamentale aver presente quanto accadde nel nostro paese nel 1917-18, al culmine della Prima guerra mondiale. La mancanza di pane, le notizie tremende dal fronte, la censura sulla stampa, il disfacimento della Russia zarista e la sconfitta italiana di Caporetto diedero vita a un clima di spavento ma anche all’attesa di rivolgimenti generali e — letteralmente — prerivoluzionari. Per circa un anno, a partire dall’aprile del 1917 e soprattutto al sud, vi fu spesso la corsa a ritirare i bambini da scuola perché si diceva imminente l’arrivo di medici e carabinieri che avrebbero praticato la vaccinazione avvelenata per non dover più pagare i sussidi alle famiglie dei militari al fronte. Al nord era frequente anche la voce che il nuovo zucchero addizionato di saccarina, autorizzato per far fronte alla penuria del prodotto, avrebbe procurato la morte di diversi bambini.

In maniera paradossale ma non troppo, queste storie si spensero quando comparve una vera, terribile minaccia epidemica, stavolta davvero censurata dalle autorità: l’influenza spagnola, che cominciò a falcidiare in massa gli europei proprio mentre la guerra volgeva a favore dell’Intesa, l’alleanza di cui faceva parte l’Italia.

I falsi eredi di Luigi XVI


L’eliminazione violenta di Luigi XVI e dei suoi familiari cambiò in maniera definitiva la percezione che gli europei avevano dei propri monarchi. Era già successo in Inghilterra nel 1649 con la decapitazione di Carlo I, che tramava per restaurare il cattolicesimo nel paese, ma quella vicenda non ebbe conseguenze culturali pari al destino della famiglia reale francese. Lo shock sociale e politico degli anni della Rivoluzione ancora perdura nella mente dei reazionari europei.

Il trauma fu tale da dar vita fin da subito a un secolo di voci e di racconti di mitomani intorno alla sopravvivenza del Delfino di Francia, cioè l’erede al trono di Luigi XVI.

Nella realtà, il vero Delfino, il piccolo Luigi Carlo (1785-1795), morì precocemente, trattenuto in sostanziale prigionia e in pessime condizioni dalle autorità francesi. Accolta con orrore dai controrivoluzionari, la morte del bambino diede origine sia a voci sulla sua “vera sorte”, sia a una serie infinita di personificazioni da parte di pretesi Delfini, divisi in due grandi gruppi: quelli che affermavano che, per essere liberato, era stato sostituito nella cella da un altro bimbo, di solito muto, e quelli che dicevano di essere sopravvissuti alla prigionia ed essere stati rilasciati in età adulta.

Queste storie da romanzo d’appendice (non a caso uno dei primi promotori fu il padre del Romanticismo francese, Chateaubriand) in realtà sono state per tutto l’Ottocento carburante ideologico per i controrivoluzionari di mezza Europa: da un lato raccontavano gli orrori (reali) in cui era sfociata la fine della monarchia, dall’altro alimentavano con voci di tipo complottista la speranza di un ritorno a un ordine sociale che in effetti era perso per sempre.

Ci furono però anche varianti più da gossip: circolò a lungo la voce secondo cui il Delfino di Francia non era altri che… l’ornitologo americano John Audubon, figlio illegittimo di un ufficiale francese di stanza ad Haiti, che da piccolo aveva vissuto in Francia insieme alla madre.

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L’esecuzione di Luigi XVI in un’incisione dell’epoca © Pubblico Dominio/Wikimedia Commons


Il massacro di Tianjin: la Cina in rivolta


Un altro caso di tensione culturale di vasta portata che produsse voci talmente potenti da provocare un massacro sono gli eventi accaduti nel giugno del 1870 nella grande città costiera cinese di Tianjin.

Dagli anni '40 del XIX secolo a Tianjin operavano sia missionari cattolici, per lo più francesi, sia quelli di numerose chiese protestanti. I trattati firmati nel 1858 proprio a Tianjin dalle potenze occidentali con la dinastia Qing, che ancora governava la Cina, avevano ampliato le possibilità del proselitismo cristiano, sovente aggressivo e irrispettoso della cultura locale. L’Opera della Santa Infanzia, per esempio, gestita da suore cattoliche francesi, incoraggiava la consegna all’orfanotrofio cattolico di Tianjn non solo di bambini abbandonati o in difficoltà, ma persino di piccoli rapiti da criminali cinesi che, in cambio, ricevevano ricompense in denaro. La frequente somministrazione del battesimo a bambini in cattive condizioni di salute e a rischio di morte fu vista da molti cinesi come un tentativo di sopprimere le idee confuciane. Al tempo stesso, questa pratica fece sorgere la voce che l’acqua del battesimo fosse la causa dei decessi che, in molte occasioni, avvenivano pochi giorni dopo.

Nel 1870 epidemie di ogni genere falcidiarono nuovamente i più piccoli, aumentando il risentimento verso i cristiani. Oltre al battesimo-killer, a far precipitare la situazione fu un altro motivo tipico delle leggende moderne: il sospetto suscitato dall’introduzione di nuove tecnologie “estranee”. L’accusa era che parti dei cadaveri dei bambini (in particolare gli occhi) fossero rimosse dagli occidentali per produrre farmaci, oppure per farne liquidi di sviluppo delle lastre fotografiche (il rapporto occhio/fotografia fu una parte importante dell’immaginario di massa della seconda metà dell’Ottocento).

Il risultato fu che la folla bruciò chiese e istituzioni cristiane, uccidendo circa 60 persone, fra le quali dieci suore cattoliche. È interessante sottolineare che nella storia sociale cinese moderna sia i disordini di Tianjin sia le voci paranoidi che li annunciarono sono stati percepiti come un segnale del risveglio della coscienza nazionale a fronte dell’umiliazione che le potenze occidentali infliggevano alla Cina; insomma, sia pure in maniera ambigua e paradossale, come un indice di modernizzazione e non come una forma di regressione psichica collettiva.

Questione di metodi


Ma come si va a caccia di leggende moderne nel passato remoto? Come si fa a riconoscerle? Tommaso Braccini, antropologo del mondo antico, ha scritto un libro — Miti vaganti — in cui individua nella letteratura greca e in quella latina tracce di leggende che circolano ancora ai nostri giorni. Alcune sono in perfetta continuità temporale con quelle attuali: si pensi alla cosiddetta “accusa del sangue” (la credenza per la quale gli ebrei, in specie sotto la ricorrenza di Pesach, in cui si ricorda la liberazione di Israele dall’Egitto, userebbero a fini rituali il sangue di bambini cristiani rapiti) rivolta da sempre agli ebrei, e di volta in volta indirizzata verso nemici diversi. In altre occasioni le leggende classiche e quelle moderne possono sorgere da contesti e da sentimenti simili, che poi si ripropongono in epoche assai distanti. In questo senso, l’umore generale degli americani dopo l’11 settembre era simile a quello del mondo romano dopo il sacco di Roma dell’anno 410. Come era possibile che la più grande potenza al mondo fosse stata umiliata da quattro barbari, visigoti o arabi che fossero? Doveva esser stata una macchinazione del governo. Poco cambia che il tradimento fosse imputato all’americano Bush jr (che avrebbe organizzato gli attentati per avere una scusa per attaccare l’Afghanistan talebano e, in seguito, l’Iraq di Saddam Hussein) o all’imperatore Onorio (accusato di essere in combutta con i barbari pagani, e di aver eliminato il solo difensore dell’impero, il generale Stilicone, per impedire a Roma qualsiasi possibilità di resistenza).

L’approccio di Braccini funziona, ma c’è chi ha proposto di procedere in un altro modo. È il caso dello storico e folklorista britannico Simon Young. Questo studioso ha creato un repertorio di leggende finora poco o per niente note, apparse in Gran Bretagna in epoca vittoriana. Per farlo, ha inserito negli archivi digitalizzati dei periodici britannici delle espressioni chiave con cui la stampa del tempo presentava storie potenzialmente identificabili come leggende contemporanee: “aneddoto curioso”, “storia strana”, e così via. Insieme a diversi altri indicatori (come la comparsa ripetuta della stessa storia, la presenza di variazioni sul tema, ecc.), a elementi di tipo strutturale e all’assenza di riferimenti precisi alle circostanze dei fatti (cosa che allora, in mancanza di norme sulla privacy, era assai più sintomatica di oggi), questo sistema ha permesso a Young di ricostruire una serie di probabili leggende che oggi non esistono più. Ne sono esempi le storie su bambini i cui occhi venivano fatti mangiare dagli scarabei per renderli ciechi e farli mendicare, o quelle sulle fogne di Londra infestate da una razza di terribili maiali.

Se parliamo di leggende “vecchie” è anche perché non tutte si conservano bene. Molte sono defunte lungo il cammino perché hanno cessato di svolgere la loro funzione. Capita non di rado con la comparsa di nuove tecnologie e macchine considerate sospette: è successo per la bicicletta, accusata a fine Ottocento di provocare ogni genere di disturbi, in specie sull’organismo femminile, o per i collant, rei di fondersi con le gambe delle donne - e nel caso del massacro di Tianjin abbiamo accennato all’idea ottocentesca di un uso dell’umor vitreo degli occhi per lo sviluppo delle foto.

Sia che le leggende servano a districarsi nelle grandi crisi, sia che siano dovute ad altre cause, è assolutamente necessario ricostruirne il contesto. Occorre farlo con cura almeno uguale a quella prestata al contenuto delle storie. Essere capaci di porle in una cornice adeguata è essenziale per capire quali sono le ragioni per cui apparivano plausibili, quali leve riuscivano a muovere, e quali leve, invece, sono arrugginite col tempo.

A cosa servono le leggende?


Ci siamo concentrati sullo sviluppo, talora prorompente, di voci e di leggende in periodi di aperta conflittualità e di gravi crisi sociali verificatesi nell’età moderna, in contesti diversi fra loro, ma comunque in anni ancora distanti dall’era della comunicazione digitale.

L’angolatura che abbiamo scelto e il rilievo delle voci di questo tipo non devono però indurci a spiegarle solo da questo punto di vista. In storia, gli eventi non hanno mai un’unica causa. Nei quattro casi che abbiamo riassunto è palese l’ansia della ricerca di un nemico mostruoso, interno o esterno che fosse alla propria società. In molte altre occasioni, però, voci e leggende hanno prosperato perché hanno svolto altre funzioni, per esempio di natura spirituale o ricreativa, oppure perché trasmettevano valori e codici di comportamento.

È in questo senso che vanno esaminate leggende come quella della “nonna rubata” o del “pitone che prende le misure”. Nella prima, una coppia parte per una vacanza al mare con bambini e nonna al seguito; la vacanza va bene, ma l’ultimo giorno l’anziana ha un infarto e muore. Per evitare problemi alla dogana, i parenti decidono di riportare a casa il corpo nascondendolo nel canotto, sopra al tettuccio dell’auto. Durante un sosta in autogrill, però, l’auto viene rubata insieme ai resti della nonna.

Nella seconda storia, una giovane si accorge che l’amato pitone domestico (che la donna lascia circolare per casa) ha preso l’abitudine di dormire disteso sul letto, accanto a lei, anziché acciambellato come faceva prima. Preoccupata per la salute dell’animale, si rivolge a un veterinario, che le svela l’amara verità: il pitone si distende così per misurarle il corpo e capire se potrà inghiottirla per intero.

Le due leggende raccontano storie incentrate sul senso di noncuranza per le sorti del corpo di un caro defunto che avrebbe dovuto essere onorato, oppure sul sentimento - questo davvero antichissimo - di repulsione per i rettili e, più in generale, per le specie animali avvertite come troppo distanti da noi.

Queste storie, al contrario delle voci terribili che si accompagnano a rivoluzioni, guerre, epidemie e ai periodi in cui la storia sembra accelerare, scandiscono il tempo più lento della quotidianità (nei casi citati, la vacanza, la presenza dell’animale domestico), oppure evidenziano piccoli conflitti gestibili all’interno di un gruppo - quelli a cui è più attenta la microstoria.

In tutti i casi, studiare voci e leggende del passato secondo i tanti metodi che le scienze umane oggi hanno a disposizione non è solo un lavoro per cultori dei dettagli dei tempi antichi. Usare questa prospettiva ci serve per capire la circolazione, la struttura e la forza delle leggende dei nostri giorni, che spesso nascono su conflitti e tensioni gravi, s’intrecciano in molti casi al pensiero cospirazionista e viaggiano velocissime grazie al Web. Al contempo, questo studio è utile pure per mettere nella giusta prospettiva la percezione corrente secondo la quale la forza di ciò che è “falso” oggi sarebbe maggiore che in passato.

Per quanto diversi segnali sociali debbano preoccupare, il quadro complessivo è assai frastagliato: leggende piene di ostilità, voci ed esagerazioni sono state prodotte da qualsiasi società, da qualsiasi gruppo sociale o religioso e da individui di qualsiasi orientamento politico. Usare le categorie di un “noi” chiaro e luminoso (gli individui razionali, capaci di misurare i propri limiti e i propri pregiudizi) contrapposto a un “loro” capace di inventare di tutto non è soltanto controproducente per la causa della razionalità: è antiscientifico e contrario all’evidenza di cui disponiamo.

Bibliografia

  • Ramsay, C. 1991. Ideology of the Great Fear, John Hopkins University, Baltimora.
  • Lincos, S., Stilo, G. 2021. “La grande paura dei vaccini del 1917-18”, https://tinyurl.com/mry23wbw .
  • Braccini, T. 2021. Miti vaganti. Leggende metropolitane tra gli antichi e noi, Il Mulino, Bologna.
  • Young, S. 2022. The Nail in the Skull and Other Victorian Urban Legends, University Press of Mississippi.
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