Un incontro presunto e una grande distanza: Dante Alighieri e Marco Polo

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  • 12-11-2021
  • di Gaspare Polizzi
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Statua di Dante Alighieri a Firenze. ©Rhodan59 da pixabay

I «favolosi Antipodi»


Dante Alighieri[1], pellegrino in esilio e viaggiatore immaginario ed estatico, in una settimana (dal 24 al 31 marzo 1300) transita dal mondo infernale all’estasi del Paradiso. Il più famoso viaggiatore del suo tempo, Marco Polo, nel 1271, a 17 anni, quando Dante è ancora un bambino, lascia Venezia con lo zio Matteo e il padre Niccolò per attraversare l’Asia e dopo tre anni e mezzo raggiungere la Cina e la corte di Kublai Khan. Marco rimane in Cina per quasi 17 anni, fino al 1292 e torna a Venezia nel 1295. Ma nel 1298-99 viene incarcerato dai Genovesi e in carcere detta a Rustichello da Pisa il Milione, ovvero Le Divisament dou Monde. Questi due magistrali “viaggiatori” si sono mai conosciuti? Hanno mai avuto a che fare l’uno con l’altro?

Dall’estate del 1300 Dante è costretto ad abbandonare Firenze e girovaga da esule per l’Italia, soprattutto centro-settentrionale. Nel 1312 si trasferisce presso Cangrande della Scala a Verona, dove era già stato nel 1303, e dal 1313 risiede presso Guido Novello da Polenta a Ravenna, dove morirà la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, settecento anni fa. Nel 1300 Marco sposa Donata Badoer, dalla quale avrà tre figlie, e vive agiato e onorato nella sua Venezia, dove muore l’8 gennaio 1324. Anche Carlo di Valois, fratello minore del re di Francia Filippo il Bello, di passaggio a Venezia gli chiede una copia del Milione.

Marco e Dante si sono incontrati in quegli anni? Ci potrebbe dire qualcosa una lettera di Dante «Al magnifico messer Guido da Polenta signor di Ravenna», datata «Di Vinegia alli XXX di Marzo MCCCXIIII [30 marzo 1314]», riportata da Anton Francesco Doni nel 1547, ritenuta a lungo falsa, ma attestata come vera con buoni argomenti da Giorgio Padoan[2]. Dante è spazientito dai modi rozzi dei mercanti veneziani presso i quali si trova in ambasceria, che non comprendono il latino e neppure la sua lingua, la lingua del «bel paese là dove ’l sì suona». E se ne lamenta con Guido Novello: «Ma, ohimè, che non altrimenti giunsi nuovo et incognito peregrino che se testè fussi giunto dall’estrema et occidentale Thile; anzi poteva io assai meglio qui ritrovare interpetre allo straniero idioma s’io fussi venuto dai favolosi Antipodi, che non fui ascoltato con la facondia romana in bocca; perché non sì tosto pronuntiai parte dell’esordio ch’io m’haveva fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella elettione di questo Serenissimo Doge [...], che mi fu mandato a dire che io cercassi d’alcuno interpetre, o che mutassi favella». Marco Polo era stato anche nei «favolosi Antipodi», ed era tra i personaggi più noti allora a Venezia. Criticando l’ignoranza dei Veneziani, Dante vuole forse distinguersi da un viaggiatore così extra-vagante quale fu Marco Polo, che conosce e ha verosimilmente conosciuto a Verona, alla corte di Cangrande della Scala.
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Il Gran Khan va a caccia, illustrazione tratta da Il Milione. ©Wikipedia

In Inferno, XVII (versi 1-27) Dante descrive a lungo il mostruoso Gerione, che ha la «faccia d’uom giusto» e «d’un serpente tutto l’altro fusto», mentre le zampe sono «pilose insin l’ascelle»: una figura con il volto umano, la coda di serpente e le zampe di bestia feroce, tutte espressioni simboliche della frode, raffigurata in sculture e capitelli delle chiese medievali. E vi aggiunge un particolare molto efficace e “moderno”: «lo dosso e ’l petto e ambedue le coste | dipinti avea di nodi e di rotelle». In altre parole, aveva la pelle tatuata con intrecci e piccoli scudi rotondi che simbolizzano i lacci che il fraudolento usa per sua difesa. Questi tatuaggi richiamano i tessuti orientali: «Con più color, sommesse e sovraposte | non fer mai drappi Tartari né Turchi, | né fuor tai tele per Aragne imposte». Sono i tessuti che Dante ha notato alla corte di Cangrande della Scala, portati dall’Oriente da Marco Polo e descritti nel Milione. Così amati da Cangrande che il signore di Verona decide di farsi seppellire assieme a preziose tele cinesi. Per Dante questi drappi tartari o turchi, incisi nella pelle di Gerione, sono espressioni di mostruosità.

Dante ha forse incontrato Marco e sicuramente ne conosce le imprese, ma il suo sguardo è rivolto al cielo, è troppo lontano dalle esperienze esotiche del viaggiatore veneziano per poterle apprezzare.

Ulisse e Marco verso il «mondo sanza gente»


Avviciniamoci al celebre Canto XXVI dell’Inferno, dove tra i consiglieri fraudolenti raccolti nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio troviamo Ulisse. Quanti viaggi ha realizzato Ulisse? Tanti quanti quelli della nostra civiltà, omerica e occidentale. Il nostos di Ulisse è la più famosa metafora del viaggio di conoscenza. Ma Dante aggiunge una descrizione inedita: l’ultimo viaggio di Ulisse «per l’alto mare aperto» è spinto dalla curiositas, viene intrapreso «per seguir virtute e canoscenza». E si pone un obiettivo ben preciso: fare «l’esperïenza, | di retro al sol, del mondo sanza gente».

Perché Ulisse vuole andare dove nessuno è mai stato? Certo, per innato spirito di conoscenza. Ma perché proprio nella direzione dell’emisfero australe, sotto l’equatore e non, per esempio verso l’ultima Thule, quell’isola leggendaria, terra di fuoco e di ghiaccio, nella quale il Sole non tramonta mai, a circa sei giorni di navigazione in direzione Nord dall’attuale Gran Bretagna? No, Ulisse va a cercare nell’emisfero australe il «mondo sanza gente». E Dante sa che Dio, il Dio dei cristiani, ne ha vietato la conoscenza, come aveva vietato ad Adamo di cogliere il pomo della sapienza.

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Mappa dei viaggi di Marco Polo. ©Wikipedia

Un altro viaggiatore in quegli anni è andato in quella direzione incognita e vietata dall’ortodossia cristiana: Marco Polo. Dante lo sa, perché le avventure di Marco raccontate nel Milione sono molto più note della sua incompiuta Commedia. Ma a Dante Il Milione non piace. A Firenze intorno al 1309 se ne fa una traduzione che diventerà classica e sarà la più ristampata. Ma, anche se Il Milione non gli piace, Dante deve farci i conti. Un amante dell’astronomia come Dante non può ignorare quanto aveva scritto uno tra i maggiori naturalisti del suo tempo, il fisico e astrologo Pietro d’Abano, dottore parigino e patavino, amico di Marco, vissuto a lungo a Costantinopoli per imparare il greco e l’arabo, studiando in originale i testi di Galeno, Avicenna e Averroè. Pietro d’Abano scrive il Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. E nel Conciliator differentiarum sostiene apertamente la connessione tra il mondo naturale e gli astri, il ricorso alla magia e agli incantesimi, e propone una concezione dell’uomo e dell’intero creato come un armonioso organismo regolato dalle costellazioni. Per queste e per altre affermazioni eterodosse Pietro d’Abano verrà condannato come eretico.

Dante conosce bene questi studi e non ignora che discutendo la 67a questione o «differenza» del suo Conciliator – «se sia possibile la vita sotto l’Equatore» – il più illustre naturalista del suo tempo afferma fin dal 1303, sulla base dei racconti di Marco, «massimo fra tutti coloro che hanno girato il mondo, indagandolo diligentemente», l’abitabilità dell’emisfero australe. Da Marco Pietro aveva avuto conferma dell’esistenza di esseri umani e di animali di notevole statura nelle regioni della zona torrida sulla quale a memoria d’uomo nessun occidentale aveva messo piede prima di lui. Nessuno degli Europei prima di Marco era giunto ai limiti della gran massa continentale che avevano stimolato per secoli la curiosità e l’immaginazione dei dotti e dei navigatori, antichi e medievali, da Erodoto a Cosma Indicopleuste. Marco aveva visto con i propri occhi, come l’Ulisse dantesco, «tutte le stelle già dell’altro polo», «e ’l nostro tanto basso, | che non surgëa fuor del marin suolo» (Inferno XXVI, vv. 128-129). Egli racconta che l’isola di Sumatra è situata così a meridione della Stella Polare, che questa non vi si vede: «quest’isola è tanto verso mezzodie che la tramontana [la Stella Polare] non si vede, né poco né assahe». Il fenomeno impressiona tanto Marco Polo, che vi insiste accennando ai cinque mesi in cui poté osservarlo in quell’isola dove «ancora la tramontana no si vedea, né le stelle del maestro [l’Orsa Maggiore][3]». Marco rivede le stelle dell’emisfero settentrionale al largo della punta meridionale dell’Indo, navigando trenta miglia a settentrione del Capo Comorin.

Per Dante le stelle australi preannunciano il Paradiso, per Marco il riapparire della Stella Polare sopra «il marin suolo» rappresenta il presagio del suo ritorno in patria. In definitiva, l’esperienza di Marco Polo, avvalorata dal riconoscimento di un grande studioso come Pietro d’Abano, interferiva nelle questioni scientifiche e metafisiche sulla distribuzione delle zone abitabili della Terra e sulla configurazione dell’emisfero australe e degli antipodi, concetti fondamentali della cosmografia medievale e delle Sacre Scritture. Come l’Ulisse dantesco, Marco tocca terra non lontano dall’emisfero riservato dalla volontà divina alle anime degne di salire alla beatitudine celeste.

Con il suo silenzio Dante condanna due tra gli italiani più famosi del suo tempo: Marco per il suo eccesso di ybris, simile a quello di Ulisse, e Pietro d’Abano per la troppa scienza, distante dalla vera sapienza divina. Come il mare che inghiotte la nave di Ulisse, questo silenzio si stende sul ricordo di coloro che hanno varcato i limiti del sapere rivelato, annunciando l’era dell’uomo a scapito del primato divino della conoscenza del cielo e della terra.

Justin Steinberg, direttore dei «Dante Studies», ha scritto[4] che vi sono quattro modi per rovinare le attuali celebrazioni di Dante. Considerare la sua opera come un patrimonio esclusivo dei dantisti danneggia gli stessi dantisti, perché pone dei limiti su chi e su che cosa si può scrivere a proposito di Dante. Ritenere Dante uno di noi esprime un narcisismo perverso nel bisogno di vederci riflessi nei suoi testi, che invece richiedono un dialogo serrato tra ciò che ci è familiare e ciò che ci è lontano. Ritenere Dante un poeta cattolico conduce a minimizzare il conflitto presente nei suoi testi con la Chiesa. Vedere Dante come un monumento porta a celebrazioni sempre encomiastiche, a biografie che nascondono la ricchezza e la difficoltà dei testi.

Questa breve descrizione di un incontro presunto tra Dante e Marco e della loro grande distanza evita di “rovinare” la nostra rilettura di Dante, cercando di far comprendere meglio i mondi diversi di un Trecento lontano.
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Illustrazione tratta da Il Milione di Marco Polo. ©Wikipedia

Note


1) Per una estesa trattazione del rapporto tra Dante e Marco rinvio a G. Mussardo, G. Polizzi, Tra cielo e terra. In viaggio con Dante Alighieri e Marco Polo, Dedalo, Bari 2021.
2) Cfr. G. Padoan, Le ambascerie di Dante a Venezia, «Lettere Italiane», 1982, XXXIV, gennaio-marzo, 1, pp. 3-32.
3) M. Polo, il Milione nelle redazioni toscana e franco-italiana, a cura di G. Ronchi, Introduzione di C. Segre, Mondadori, Milano 1982, pp. 226 e 228.
4) J. Steinberg, Quattro modi per rovinare Dante e un modo per salvarlo, «L’Indice dei libri del mese», 2, Febbraio 2021.
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