Un caso di avvelenamento del 1855

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  • 13-11-2020
  • di Luciano di Tizio
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L’incipit della risposta, datata 29 agosto 1855, del Ministero e Real Segreteria di Stato della Polizia Generale. @Luciano Di Tizio
L'Archivio di Stato di Chieti conserva testimonianza di un caso di avvelenamento da vipera ad esito nefasto che si è verificato nel 1855 nel territorio di San Buono (CH), quasi al confine tra Abruzzo e Molise, allora territorio del Regno delle Due Sicilie.

Prima di raccontarvi la vicenda, è necessaria una premessa: bisogna sapere che da quelle parti operavano, in quegli anni lontani, i cosiddetti ciurmatori (detti anche, con termine dialettale, ciaralli). Uno sguardo al Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani ci chiarirà di chi stiamo parlando: il verbo transitivo ciurmare, seppur desueto, potrebbe tuttora essere usato come sinonimo di ingannare, raggirare. Anticamente aveva però un significato più ristretto: rendere immune, per mezzo d’incantesimi o di bevande miracolose, dagli effetti del veleno, da pericoli o da altre stregonerie. E il sostantivo maschile che da quel verbo deriva, ciurmatore o ciurmadore (al femminile ciurmatrice), indica, sempre secondo il significato più antico, colui che effettua incantesimi.

Per mantenere una rigorosa attinenza ai fatti, sarà certamente più fruttuoso affidarne il resoconto allo scambio di corrispondenza tra il Sotto Intendente di Vasto (CH), l’Intendente (funzione che corrisponde grossomodo a quella dell’attuale Prefetto) della Provincia di Chieti, e il direttore generale della Polizia Giudiziaria nella capitale del Regno, Napoli, con l’avvertenza che le parti citate tra virgolette sono citazioni alla lettera dei documenti originali[1].

Tutto comincia il 16 Agosto 1855 quando il Sotto Intendente di Vasto scrive al suo diretto superiore nel capoluogo di provincia: «Mi affretto a rassegnarle il seguente rapporto direttomi dal giudice Regio di S. Buono, in data di ier l’altro. Signore, superstiziosa credenza, dipendente dalla ignoranza del volgo, fa ritenere in queste contrade, che alcuni individui, per virtù loro sovraumanamente trasfusa dall’Apostolo S. Paolo, portano in luce non solo con la facoltà di poter catturare i rettili impunemente, ma con l’obbligo benanche di dover andare accattando coi serpenti, onde addirne in parte il profitto ad uffizi religiosi a vantaggio del S. Apostolo, il quale contro i riluttanti adopera una mano invisibile a percuoterli nel sonno. Di qui la genia dei ciurmatori, chiamati col linguaggio vernacolo ciaralli, che abbondano piucchè altrove in questi luoghi, genia da doversi reprimere perché, mentre da un canto abitua una classe di braccia laboriose all’ozio, imprime dall’altro nelle classi di persone meno barbare, e paurose del raccapriccio alla vista di quei ciurmadori, che penetrando con simulati motivi nelle case altrui, si fanno poscia a chiedere con la mostra di schifosi serpenti ciò che non per volontà, o per pietà cristiana, ma per solo terrore si è nell’obbligo di largir loro.

Il giovinetto di anni 15 Domenicangelo Russo di S. Buono erasi da pochi anni aggregato alla casta dei ciurmadori, ed era tenuto in pregio di abile anguilatore [2]. Ora il medesimo nel mattino del 7 corrente, stando in campagna, fu avvertito da un pastore della presenza di un serpentello di non ordinaria forma sotto un albero poco lontano. A questo annunzio accorse subito, e veduto il rettile, che era rossastro, di breve lunghezza, e di coda corta, ma doppio, avendo altresì due alette, in vicinanza della radice della coda, e presso il capo, credette farne una buona preda, per lo che gittatoglisi sopra, fu sollecito a stringerlo tra le mani. Il rettile però, che esser dovea della famiglia delle vipere e che avea potuto nella sua prima età soffrire della mutilazione della coda, ricresciutagli di poi in parte soltando, usando dei propri mezzi per respingere l’aggressione, si fece a mordere in ambo le mani il ciurmatore, che non pertando lo restrinse nel suo cappello, covendolo con una pezzuola. Quindi apprezzandone i morsi, e ricorrendo all’espediente solito a praticarsi da lui, ci fu il Russo a sorbire il sangue cruente dalle morsicate mani, già naturalmente attossicate. Ma non ebbe appena quel sangue oltrepassato l’esofago, che ricominciò il Russo ad accusare i dolori viscerali, ed a non sostenersi più dritto. Sopraggiunse il padre in suo aiuto, e lo condusse in un’aja vicina, dove cercò ristorarlo col vino. Ne fu inutile però il tentativo. Il serpente tuttora esistente nel cappello del Russo fu quindi mandato via, ed il padre di costui, osservando che il figlio dichiaratasi vicino a morte, anziché cercar per lui dall’arte medica un pronto soccorso, si recò immantinente in Cupello da un tal Gennaro accreditato pel più abile ciurmadore dei dintorni, onde consultarlo, stante l’avanzata età e l’esperienza di lui. Oh la ignoranza volgare condannabile nel secolo che corre! Il veglio consultato, in tuon di oracolo, rispondeva esser quel rettile uno dei così detti serpenti della buonasera, che non un bruto era quello, ma l’anima di uomo in corpo bruto, che desso dovea essere interrogato dal ciurmadore, il quale sarebbe divenuto fortunato con l’udirne i responsi e non mai egli dovea prenderlo con violenza; che il giovinetto, ignaro dei misteri dell’arte, erasi inurbanamente scagliato su quell’animale, che trovatosi fuori dal proprio ricettacolo, per essere sopraggiunto il giorno, e mancatogli il tempo alle operazioni, ch’era in obbligo per forza di arcano destino e compiere nella notte ch’era in somma quegli uno stregone, e che dal non averlo trattato convenientemente, il Russo erane stato morsicato, dà quali morsi non poteasi campare. Sorpreso, attonito, stupefatto dalla rivelazione di queste cose, misteriose, e nuove, tornò il padre del Russo sul luogo, ove lasciato avea il figlio, ma cadavere ve lo rinvenne. Essendo questo un avvenimento, a mio credere, di alto interesse, e per la novità del caso, e perché nella morte del Russo, quantunque questa dipesa fosse da ignoranza, pure avrà potuto concorrere il dolo, o la colpa di alcuno, che sciente delle conseguenze, che il mestiere di ciurmadore potevan arrecare all’inesperto giovinetto, ho io stimato utile d’istruire su di esso, cominciando dal sottoporre a legale nefrotomia il di lui cadavere, che fu trovato interamente nero all’esterno, con la vere sembianza di un moro, e nell’interno affatto cancrenato, d’onde ebbero i professori a conchiudere essere la morte avvenuta per potente veleno aere - animale».
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Un ritaglio della comunicazione del 16 agosto 1855, nella quale si descrive il serpente “che era rossastro, di breve lunghezza...”.

Linguaggio non proprio aggiornato, ma mi pare abbastanza ben comprensibile: il ragazzo aveva dimostrato tutta la sua inesperienza nella cattura del rettile ricavandone una serie di morsi a ripetizione, e non certo a secco (si definiscono così i morsi di avvertimento, senza inoculazione di veleno). Aveva continuato succhiando il sangue dalle ferite e poi, complice l’ingenuo padre, cercato conforto nel vino e infine era stato affidato alle cure di un ciarlatano: quasi un catalogo completo delle cose da evitare in caso di morsicatura. Colpisce in positivo invece la reazione del funzionario dello Stato, certamente non privo di cultura, che, diremmo oggi, ha subito aperto un fascicolo di indagine e si lascia andare, nel 1855, a un’espressione di sconforto (Oh la ignoranza volgare condannabile nel secolo che corre!), che purtroppo in molti casi potremmo tranquillamente sottoscrivere anche oggi, quando ad esempio sentiamo affermare che la colpa della pandemia da coronavirus è dell’anno bisestile. Va ancora osservato che la descrizione del rettile “rossastro, di breve lunghezza, e di coda corta, ma doppio, avendo altresì due alette, in vicinanza della radice della coda, e presso il capo” indica presumibilmente un animale in fase di muta, sorpreso mentre si sta liberando della vecchia pelle.

Ma andiamo avanti: il 21 agosto la comunicazione viene girata a Napoli. Dalla capitale il 29 agosto il Direttore del Ministero Real Segreteria di Stato della Polizia Generale, chiede “Al Signor Intendente di Abruzzo Citra – Chieti” ulteriori chiarimenti sull’episodio: «Ho letto il suo rapporto (...) che tratta della morte del giovinetto Domenicangelo Russo di San Buono morsicato da un serpente di straordinaria forma da lui già preso; e però desidero conoscere che cosa siasi fatto del rettile, e quant’altro saper si possa allo stesso nello interesse della scienza geologica. In quanto poi al vecchio impostore sarebbe utile che fosse interrogato affin di meglio conoscere ed intanto vorrà Ella proporre per questa classe di ciurmadori temperamenti atti ad impedire gl’inconvenienti cui potrebbe dar luogo il loro tristo mestiere».
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Una vipera comune fotografata su una spiaggia tra Abruzzo e Molise.©Marco Carafa

Nessun procedimento giudiziario, dunque, e del resto appare difficile configurare un reato di credulità o di autolesionismo da mancanza di adeguate conoscenze, ma curiosità scientifica su un ofide descritto con inusuali caratteristiche e preoccupazione per l’opera dei ciurmatori. I ciaralli, com’erano meglio conosciuti a livello locale, erano ciarlatani e “serpari” che si vantavano di possedere virtù magiche ottenute grazie alla benevolenza dell’Apostolo San Paolo e che erano soliti mendicare casa per casa tenendo serpenti tra le mani, anche per intimidire coloro cui chiedevano doni. Sopportati e temuti, non certo amati. Anche se alcuni tra loro offrivano servigi pure per più lucrose arti magiche a pagamento, con denaro o donazioni in prodotti, per ogni possibile esigenza: pratiche per favorire un buon raccolto, filtri d’amore e quant’altro la fantasia potesse suggerire.

La nota del direttore generale arriva a Chieti e il 4 settembre parte dal capoluogo una nuova richiesta per il Sottintendente di Vasto nella quale si chiedono i chiarimenti sollecitati da Napoli aggiungendo un ordine specifico: «In quanto poi al vecchio impostore per nome Gennaro di Cupello sarà utile che Ella lo faccia interrogare affin di meglio conoscerlo, e me ne dica il risultato».

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Questa immagine, tratta dal volume di Fabio Stergulc “Vipere, ecologia – etologia – rapporti con l’uomo”, Edizioni Paoline, 1986, rappresenta un’altra testimonianza di un avvelenamento con esito fatale, questa volta datato 1878. La foto è la numero 70 del volume citato ed è stata scattata al km 7,5 della strada statale del Passo Rolle, in provincia di Trento. Una ulteriore conferma della rarità degli eventi nefasti legati a morsi velenosi anche due secoli fa, quando gli incontri erano certamente più frequenti e c’erano minori possibilità di praticare cure efficienti.
Richieste rimaste tuttavia inevase: dalle successive comunicazioni del 5 (da Vasto a Chieti) e del 10 novembre (da Chieti a Napoli) abbiamo soltanto la conferma che il serpente era stato liberato il giorno stesso della incauta cattura, mentre «nient’altro si è potuto liquidare nello interesse della scienza geologica». A vuoto anche il tentativo di interrogare il ciurmatore di Cupello, «dappoichè il medesimo fu una delle vittime del colera dominante in quel paese». Viene invece confermato l’impegno a prendere provvedimenti per frenare l’attività dei ciaralli ma nella documentazione esaminata non sono presenti informazioni su che cosa sia stato realmente fatto.

Una considerazione si impone: già nel 1855, quando buona parte della popolazione abruzzese viveva in zone rurali e il contatto accidentale con i serpenti era certamente più frequente di oggi, un avvelenamento da morso di vipera era un evento del tutto eccezionale. Viene da chiedersi quale possa essere la frequenza di simili accadimenti in quel territorio in tempi più recenti. Ed è appunto la domanda che ci siamo posti, con alcuni colleghi, dopo aver casualmente scoperto nelle carte d’archivio la storia che avete avuto sin qui la pazienza di leggere e prima di farne oggetto, nel 2010, di un poster in un congresso scientifico di erpetologia[3]. Ebbene ci è stato impossibile andare oltre una generica affermazione: “i casi di morso da vipera sono estremamente rari”. Non esistono infatti, e direi purtroppo, statistiche elaborate dalle Aziende Sanitarie mentre le segnalazioni riferite dalla stampa sono in gran parte inattendibili. La casistica raccolta nel Chietino nel triennio 2008-2010 ha riguardato soltanto 4 casi, nessuno a esito nefasto: nel 2008 un uomo residente a Bomba (CH) è stato morso sui Monti Pizzi mentre una ragazza di Vasto (CH) è stata morsa durante una escursione nei pressi di Barrea (AQ), nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Nel 2009 è capitato a due non giovanissime signore, una a Roccascalegna (CH), l’altra nel cimitero di Pretoro (CH). Nello stesso periodo presso l’ospedale di Castel di Sangro (AQ), nel cuore di un’area montana in cui l’ofide è largamente diffuso, erano segnalati due casi, uno solo dei quali riconducibile al viperide: nel 2008 un turista era stato in realtà morso da un giovane esemplare di Saettone (Zamenis longissimus), un serpente innocuo; il 31 maggio 2010 un uomo di 40 anni è stato invece effettivamente morso da una Vipera aspis nella zona di Lago Vivo, nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, riportando soltanto gonfiore ed ecchimosi locali sulla coscia, senza sintomi generali. L’incidente mortale avvenuto nel 1855 resta, allo stato attuale delle conoscenze, del tutto eccezionale ed è stato, permettetemi di affermarlo documenti alla mano, diretta conseguenza di ignoranza e superstizione.

Note

1) Archivio di Stato di Chieti (1855): Intendenza di Polizia, busta 577, p. ter, f. 13 bis, cas. 5, “Morte di un giovinetto Domenicangelo Russo di San Buono morsicato da un serpente”.
2) L’espressione “abile anguilatore” indica una certa destrezza nel catturare serpenti.
3) Pellegrini Mr., Di Menna G.D., Di Tizio L. (2010): Avvelenamento mortale da morso di vipera nel 1855 in San Buono (Chieti, Abruzzo), pp. 553-557. In: Di Tizio L., Di Cerbo A.R., Di Francesco N., Cameli A. (eds). Atti VIII Congresso Nazionale Societas Herpetologica Italica (Chieti, 22-26 settembre 2010), Ianieri Edizioni, Pescara, 584 pp.

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La fase terminale dell’intervento chirurgico: si ricuce la ferita ©Maurizio D’Amico

Una storia recente


Non solo storie antiche e con esito nefasto. Ve ne racconto pure una moderna. Estate 2008, un operaio al lavoro a bordo strada con un decespugliatore involontariamente sventra (è il termine giusto) una vipera. Siamo a Castel di Sangro (AQ), nel cuore dell’Abruzzo interno. Da quelle parti opera un veterinario un po’ speciale: Maurizio D’Amico, erpetologo con una grande passione per i serpenti. Fa conferenze, incontri nelle scuole... Lo conoscono tutti. L’operaio ama la natura e gli animali, è dispiaciuto di quel che gli è capitato. Si affretta a chiamare il dottor D’Amico, che accorre. La vipera ferita è una femmina adulta, incinta. Mal ridotta ma viva. Il veterinario la porta in ambulatorio e la opera: seda l’animale, allarga e pulisce la ferita, risistema gli organi interni, ricuce. Qualche giorno di timore, ma poi è festa: la vipera si riprende e mette al mondo i suoi piccoli, ben nove. Un intervento eccezionale, che meriterà due anni dopo una comunicazione scientifica in un congresso ma che soprattutto dà al dr. D’Amico una inattesa e immediata popolarità sui media: “vipera incinta operata con successo diventa mamma”. Un titolo che fa sorridere, ma almeno questa volta c’è stato un lieto fine...

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